lunedì 17 dicembre 2018

NONNITUDINE

Innanzitutto, ringrazio la libreria Velasquez di Foggia per l'opportunità di leggere e recensire uno dei suoi titoli in vendita, un'iniziativa piena di fiducia e lungimirante per chi non vuole solo clienti ma vuole anche far rete. 
Il titolo che ho scelto, tra i quattro disponibili, è Nonnitudine di Fulvio Ervas edito dalla Marcos y Marcos.


Da come si può vedere, uno dei motivi che mi ha portata a sceglierlo è stata proprio l'immagine di copertina di Laura Fanelli, un bell'albero abitato da bambini su sfondo giallo. Eh sì, volevo qualcosa di spensierato. In più mi ha attratto il nome, reduce da poco tempo dalla lettura di Casalinghitudine di Clara Sereni, ho sentito una certa familiarità di temi.

Protagonista di una storia semplice e a tratti paradossale è un neononno veneto che si appresta a vivere una nuova fase della sua vita: essere nonni. 
Un nonno, tutt'altro che comune, una sorta di ricercatore che con fare scientifico e con toni ironici riflette sulla sua nuova condizione. Come scrive Elisabetta Bolondi, sembra quasi un romanzo di formazione rovesciato, dove un neononno sulla sessantina vive una rinascita all'arrivo del suo primo nipotino. 
“anche lui è arrivato in un luogo fatto di tempo, stava sul colmo di una collina da dove si vede la vita scemare e germogliare nuovamente”.
Il suo rimescolamento emotivo lo porta a ricercarne le spiegazioni: legge libri sull'imprinting; interroga una pediatra sul ruolo e sugli effetti "balsamici" della risata dei bambini; interroga i suoi amici, ex-geostrateghi, a loro volta alle prese con nipoti e passeggini; inaugura un circolo di neonipotizzati al bar di Flavio dove tra una birra e uno sfottò si parla di pannolini, di pappe e di vestitini. 
“Avrebbe posto domande, raggruppato pareri e stabilito i criteri per compararli”. 
Ne avrebbe, forse, potuto ricavare un manuale: corso rivolto ai neononni. Un manuale d'aiuto per quei nonni che, come lui, si sentono al contempo rapiti e persi di fronte alla nuova vita che gattona. Ma tutto questo lo solleva solo, lenisce un po' la tristezza della distanza del bebetin che cresce ed esplora felice il mondo nelle Asturie.
Sente che la sua responsabilità verso il nipote è qualcosa di più delle riunioni del suo circolo: 
"essere nonni aveva implicazioni assai più ampie che essere stati padri o madri, perché a quel tempo avevano degli alibi, erano giovani e non conoscevano appieno il mondo, dovevano lavorare, pensare ai mobili e al mutuo, erano assorbiti e distratti; ora l’orizzonte era più limpido, polvere e molto rumore erano svaniti e lo sguardo avanzava in lontananza; ora sapevano di sé e del mondo; sapevano che stavano lasciando in eredità miliardi di frammenti di plastica, nuvole di gas di scarico, acque sporche; sapevano che si alzavano la notte per svuotare la dispensa del futuro dei loro nipoti".
Si sente afflitto, avverte la necessità di bonificare un mondo come questo affinché un nipote possa radicarsi. Scopre la sua malattia: “la nonnitudine”. Comprende di stare invecchiando e che, in fin dei conti, non potrà fare molto di più di quanto ha fatto con i suoi figli: vedere la vita nascere, crescere, accompagnarla per un tratto e poi lasciarla andare.

Vorrebbe che il mondo decelerasse, che il tempo invertisse direzione, vorrebbe poter giocare ancora con un bambino come se si trattasse di sua figlia, vorrebbe, vorrebbe… Ma sa che ciò non è possibile e allora scrive una favola, una storia che accompagnerà il bebetin anche quando lui non ci sarà. Un racconto fantastico dove un bambino abbandona il mondo conosciuto per seguire la sua strada, quella che lo porta in un mondo che, dopo la distruzione, sta ritornando alla luce grazie alle risate dei bambini.
“Ascoltando le risate dei bambini, il mondo diventa meno buio e noi più visibili e umani.”
Le risate dei bambini che risuonano e fanno rigermogliare la terra dalla finzione della favola diverranno mai realtà? 

Qualche anno fa, forse essere nonni, come del resto essere genitori, non era di certo un ruolo su cui si facesse tanta filosofia. Di bimbi ne nascevano molti, di bocche da sfamare e lavoro si riempivano le giornate, era difficile dar spazio a pensieri e riflessioni su ruoli e funzioni della relazione genitori-figli e ancor di più nonni-nipoti. In una società infantocentrica, nell'accezione positiva del termine, dove tra l'altro di bimbi ne nascono pochi, forse c'è più tempo e predisposizione alla riflessione su di sé e i propri doveri di genitore e di nonno, ecco perché mi è sembrato un romanzo a tratti anche paradossale, perché vengo da una generazione dove i nonni sono stati più una comparsa che protagonisti principali o secondari. 

Un romanzo leggero, ironico dove si alternano la narrazione delle giornate alla scoperta della nonnitudine e le osservazioni del nonno che con cura annota dentro di sé il germogliare del bebetin. In chiusura una storia fantastica che il nonno scrive al più grande bebetin per insegnargli a tenere a bada la paura e aver fiducia nei propri piedi. "Lasciare che ci portino..." alla scoperta di sé. La stessa scoperta che il neononno compie in compagnia di Mister lacacca, ovevro bebetin.



mercoledì 12 settembre 2018

LA LISTA DI LISETTE


1937. Una giovane coppia di sposi, André e Lisette, hanno appena lasciato Parigi per dirigersi verso sud, verso la Provenza. Alla stazione di Avignone, tra le valige e gli attrezzi di André c'è anche il sogno spezzato della giovane parisienne, diventare assistente della galleria d'arte Laforgue. Dopo una breve attesa, con ritardo, ecco arrivare una piccola corriera squadrata, un cimelio sbiadito, da cui salta giù Maurice, l'autista.
Seguii il consiglio di suor Marie Pierre, sforzandomi di vedere le cose sotto la luce migliore, e azzardai un'ipotesi. "Mi dica, monsieur. In questa sua città c'è una galleria d'arte?"
"Una che?"esclamò lui.
"Un luogo in cui si vedono dipinti originali".
Rise fragorosamente. "Mais non, madame, il nostro è solo un village".
La risata di Maurice, grande, grosso e panzuto, o come amava definirsi un chevalier de Provence, la ferisce nel profondo.
Il mio anelito d'arte non era casuale o recente. Persino da bambina, quel desiderio era stato una forza tangibile ogni volta che mi ero intrufolata nella cappella delle Figlie di Saint-Vincente-de-Paul per contemplare il dipinto della Madonna con bambino.
E mentre Lisette amareggiata si chiede come sopraviverà senza una galleria d'arte, la corriera prosegue in direzione di Russillon, un piccolo paese del sud appollaiato in cima a una montagna. 

 
Il loro trasferimento a Russillon era nato dalla richiesta del nonno di André, Pascal, che a causa della sua salute cagionevole desiderava e necessitava un aiuto. Ma quando arrivano in paese, anziché un anziano ottantenne malandato e in fin di vita, trovano un vecchietto pieno di energie intento a giocare a boules e a sfoggiare il suo lancio migliore. 

Una desolazione ancor più forte colpisce questa volta non solo Lisette ma anche André, che aveva rinunciato al suo ruolo di funzionario nella Corporazione degli Encadreurs, l’associazione dei corniciai di Parigi. Avevano lasciato tutto e gettato al vento carriera e sogni per assecondare i capricci di Pascal?

Il vecchio Pascal, però, ha una sua ragione nell'averli chiamati e fatti trasferire nella provinciale Russillon. 
Pascal, che era stato prima minatore delle cave di Russillon, dove estraeva i pigmenti d'ocra, aveva poi deciso di venderli lui stesso agli artisti di Parigi. Giovane e pieno di speranze si era trasferito nella capitale dove, arrabbattandosi come corniciaio, iniziò a lavorare presso diverse botteghe frequentate da numerosi artisti. In questo contesto ricco di incontri Pascal riceve e aquista alcuni dipinti: un tesoro inestimabile, sette dipinti ricevuti dalle mani di artisti come Cézanne, Pisarro e Picasso. Doni preziosi che racchiudono storie d'amore e d'arte che Pascal vuole raccontare perché non vadano perdute quando lui non ci sarà più.
E così, Lisette, quasi senza accorgersene viene iniziata al lavoro di curatrice d'arte. All'ombra dei dipinti di Pascal e delle sue storie, in un contesto informale ma ricco di amore, Lisette impara ad osservare e ad amare l'arte più di quanto avesse immaginato nei suoi sogni parigini. 
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, dopo la morte di Pascal e la partenza di André al fronte, Lisette rimarrà a Russillon per proteggere i suoi dipinti portando nel cuore quanto Pascal le aveva detto: "Prenditi cura dei dipinti e lascia che loro si prendano cura di te".

E mentre le SS, su ordine di Goering e Goebbels, si danno al saccheggio e al furto di migliaia di opere d'arte in tutti i territori occupati, Lisette con l'aiuto di alcuni Roussillonnais e in compagnia delle sue amiche e compagne di vita la capretta Geneviève e la gallina Kurica, impara ad essere paziente, ad assecondare gli eventi della vita, anche i più tragici e.. a vivere in un'opera d'arte.

La scrittrice Susan Vreeland, già autrice di altri romanzi storici dedicati all'arte e agli artisti, ha creato un romanzo, quello della Lista di Lisette, a mio avviso poetico. Lessi una volta che la letteratura è la pittura dell'anima e leggendo questo romanzo, le sue descrizioni delicate, ho avuto l'impressione di immergermi in un'opera d'arte che parla anche un verace accento provenzale. 
Un merito della scrittrice, oltre l'aver regalato momenti di riflessione al lettore seguendo la crescita personale della protagonista Lisette, è stata anche quella di restituire un brano di storia dell'arte raccontata da personaggi semplici. André, Lisette, Maxime, il vecchio Pascal, e alcuni Roussillonais diventano testimoni e protagonisti di una ricostruzione storico-artistica degli anni che vanno dal 1937 al 1948. Undici anni durante i quali il lettore apprende i segreti dell’ocra e delle miniere di Roussillon, delle bories (le antiche abitazioni in pietra dell’età del bronzo), le vicende degli artisti come Cézanne, Pisarro, Picasso fino a giungere a Chagall e all'arte "degenerata", nonché la sofferenza, la brutalità e la paura della guerra. 
E mentre la storia delle nazioni e quella dei protagonisti si snoda c'è anche spazio per l'arte e per il suo ruolo nella nostra vita:

"La grande arte afferra l'osservatore e lo mantiene in uno stato ipnotico di comunione con il soggetto, fino a fargli capire con chiarezza la propria essenza, o l'essenza dell'umanità. [...] gli fornisce gli strumenti per una vita migliore e per evitare di farsi inghiottire dal caos del mondo".


Non ho potuto non condividere anche questa lettura che consiglio vivamente non solo a quanti amano l'arte, ma a tutti coloro che cercano qualcosa di bello che resti anche dopo l'ultima pagina.

Buona lettura e a presto!

mercoledì 5 settembre 2018

OH HARRIET!


Con i libri non ho mai avuto dubbi. Se entro in una libreria o in una biblioteca e giro un po' tra gli scaffali accade che il nome di un libro, un'immagine o un colore della copertina mi attira e voilà la scintilla della curiosità si accende. Prendo il libro, lo sfoglio, leggo un po' la trama e sento che non è stata pura coincidenza averlo scelto. Ormai sono così abituata a questi "colpi di fortuna" che mi ci affido completamente e non ne sono mai stata delusa. Ho fatto questa premessa perché è così che è incominciata con Oh Harriet!. Primo giorno di lavoro in libreria da sola: facevo una ricognizione tra gli scaffali e gli espositori, ripetevo i reparti e le sezioni per evitare di farmi prendere dall'ansia quando qualcuno mi avrebbe chiesto "Scusi, dove si trova..?", e mentre guardavo e riguardavo i libri, cercando di memorizzarne le collocazioni, nella sezione ragazzi, di costa, c'era lui, il libro di Francesco D'Adamo che mi ha chiamata. Non ho esitato, l'ho preso e ho letto come sempre la trama e alcuni cenni sull'autore. Il libro si è rivelato molto, ma molto meglio di quanto era riportato sulla copertina. Come a dire che il sesto senso va oltre i dati razionali: il libro mi è piaciuto ed è stata una scoperta sotto vari punti di vista.

Iniziamo con ordine:


Billy Bishop è un giovane cronista dell'Herald Tribune di New York, vorrebbe dimostrare la sua bravura e il suo valore scrivendo sull'evento che fece Storia nel 1912, ovvero l'affondamento del Titanic, ma, come spesso succede agli ultimi arrivati, gli viene affidato un pezzo apparentemente di poco conto, un'intervita ad una vecchietta, una certa Harriet Tubman. 

«Una vecchia nera, esordisce il suo vice capo redattore Chuck, «si chiama Harriet Tubman. Sta da qualche parte a Cayuga. C'entra qualcosa con quella storia dei diritti civili, lo schiavismo ... Sai, roba da negri. Occhio! Bruce ci tiene». Bruce era il redattore capo, per cui Billy, obtorto collo, si reca e vede i suoi sogni di carriera allontanarsi sempre più.

La vita, però, era stata più generosa di quanto gli era parso. 

In una casa di riposo Billy incontra Harriet, una vecchietta malata e gracile, che non mostra alcun interesse né per lui, né per il suo tesserino e né per il NYC. Se Billy pensava di parlare con una vecchia rincitrullita di novant'anni si sbagliava di grosso. Nonostante l'età e la malattia Harriet non ha perso né la forza né la sua sfrontatezza che disarma il giovane cronista fino al punto di mollare tutto e partire laddove si stava scrivendo la "vera cronaca mondiale". Qualcosa, però, ferma Billy dal partire, qualcosa che va oltre l'aver conosciuto la vita e le disgrazie di un' ex schiava. Lo ferma il coraggio e l'umanità che il racconto di Harriet contengono. Billy scopre una donna che ha fatto della sua vita un dono, una donna che un giorno, ancora ragazza, ha deciso che doveva liberare i neri d'America dalla schiavitù e l'ha fatto concretamente. Il giovane cronista impara qualcosa di fondamentale:
«Forse la storia che sto raccogliendo qua e là è più importante del Titanic, anche se non finirà mai in prima pagina e non verrà mai letta da milioni di persone. Ma, vedi, sto cominciando ad imparare una cosa: le storie importanti non sempre sono quelle che finiscono in prima pagina».
Allora, chi era Harriet Tubman? Inizio col dire che è un personaggio realmente esistito e che l'autore, Francesco D'adamo, come scrive in Nota d'autore, l'ha "incontrata" per caso mentre faceva delle ricerche sulla Underground Railroad, ovvero una rete di strade nascoste e percorse da migliaia di schiavi neri diretti dal sud delle piantagioni americane al Nord America, alla conquista della propria libertà. Questa strada venne percorsa anche da Harriet che, dopo la fuga e l'ottenimento della libertà in Pennsylvania, assieme ad altri Railroads ripercorse più e più volte, avanti e indietro, per portare in salvo altri schiavi. Ed è per questo che Harriet Tubman venne soprannominata la Mosé degli afroamericani.
La storia di Harriet, come quella di altri Railroads - ad esempio Peg Leg Joe, sempre raccontata da D'Adamo in Oh Freedom! - fanno parte di quelle storie poco note, nascoste, eppure così importanti per la nostra storia sociale e direi anche personale. Credo che imparare da chi ha avuto la virtù della ricerca della libertà e ci ha provato senza chiedere in cambio né prime pagine, né fanfare e né glorie, sia da tenere come esempio e come guida. Oltretutto, pensare che a far tutto questo è stata una donna, una donna con problemi di salute e con tutte le difficoltà del caso, lo trovo straordinario. La sua storia e il suo esempio regalano una boccata di fiducia nelle proprie possibilità - perché rimane sempre vero che anche una sola persona può fare la differenza - e nel genere umano, che per fortuna non è ristretto alla sola cronaca da prima pagina. 
Vi lascio con una frase che il personaggio di Harriet dice a Billy e che mi sembra abbia una forte attualità:
«Erano ancora cuccioli nel cuore e avevano paura di tutto quello che non conoscevano. Meglio continuare la vita da schiavi che affrontare l'ignoto. Ti sembra strano, ragazzo? La libertà chiede fatica e passione, mica la trovi per strada, e ci sono tanti che la libertà non la cercano perché non sanno cosa farsene».

Buona lettura e alla prossima!

martedì 14 agosto 2018

L'ANNO IN CUI IMPARAI A RACCONTARE STORIE

Un romanzo letto d'un fiato: dopo le prime pagine non ho potuto richiuderlo se non al termine. Vuoi l'ambientazione bucolica e la vita contadina che mi hanno rapito e portata in un mondo lento, autentico e ricco dei profumi della terra, vuoi il racconto di Annabell, la protagonista, una via di mezzo tra un diario personale e un romanzo giallo, la storia mi ha presa e accompagnata in Pennsylvania negli anni '40 dove mi sono trovata circondata da boschi, valli e ho gustato la vita semplice, ma pur sempre affaccendata, di una piccola comunità americana.
L'autrice Lauren Wolk ha il dono di una scrittura delicata e coinvolgente, nonché l'attenzione ai dettagli e a parentesi descrittive che non appesantiscono la narrazione, anzi, le danno sapore e calano le azioni nel loro contesto. L'anno in cui imparai a raccontare storie, come scrive l'editore, è una sintesi perfetta di avventura, suspance e impegno civile che dà voce ad una protagonista semplice e coraggiosa, anche se ha solo dodici anni.

Lauren Wolk, L’anno in cui imparai a raccontare storie (trad. di Alessandro Peroni), Salani Editore 2018

A cavallo tra le due guerre, che tristemente hanno segnato la storia del '900, Annabelle, una ragazzina di dodici anni di una piccola città della Pennsylvania, è alle prese con tali cambiamenti che faranno girare la sua stabile vita come una trottola. 

[...] non soltanto perché la guerra aveva trascinato il mondo intero in una violenta rissa, ma per via della ragazza dal cuore malvagio che arrivò sulle nostre colline, cambiando tutto. p. 9
 Nell'autunno del 1943 arriva Betty Glengarry a Raccoon Creek . Si vocifera che la piccola Betty sia stata mandata in campagna dai suoi nonni perché è una ragazzina incorregibile. Betty, in effetti sarà un tormento sia per Annabell e i suoi due fratelli Henry e James, e sia per l'intera comunità. A scuola, lungo il percorso da scuola a casa Betty minaccia, picchia e gioca crudeli tranelli. Ed è proprio questo incontro fortuito e nefasto che darà una spinta alla crescita della piccola dodicenne della Pennsylvania. 

L'anno in cui compii dodici anni imparai che quello che dicevo e facevo era importante. Capii che non sarei potuta diventare dodicenne senza darmi da fare, cioè senza trovare il mio posto. p.10
E Annabell trova il suo posto con la semplicità di una ragazzina in erba che a differenza dei grandi crede a ciò che sente e non a ciò che appare. Una serie di incidenti colpiscono dapprima Ruth, amica e compagna di classe di Annabell, e poi suo fratello minore James, incidenti che Betty manipola a suo piacimento incolpando lo strambo personaggio di Toby, reduce di guerra, che dal suo rientro vaga per le colline indossando una lunga cerata nera e tre fucili in spalla. La storia prende delle pieghe ancor peggiori quando la stessa Betty scompare e tutta la comunità è presa dalle ricerche della ragazzina e del suo ipotetico rapitore. Annabell, che si trova alle prese con una situazione apparentemente ingarbugliata, emotivamente coivolta tra la sua istintiva simpatia per Toby e l'ambiguità del suo rapporto con la sua nuova compagna di scuola, fa delle scelte, delle scelte che la portano a seguire l'istinto e il buon senso anziché i luoghi comuni e le apparenze delle "evidenze dei fatti". Annabell crede nella verità e nella possibilità di spiegare gli eventi. 
Guardai in faccia mia madre. «Non mi pare un segno di qualcosa che non capiamo. Toby ha i suoi motivi per comportarsi così, e io non penso affatto che sia strano per questo. E se lo è, lo sono anch'io, e lo sei pure tu». p.214  
Ha fiducia nella giustizia e cerca soluzioni anche creative per raggiungerla, raccontando bugie o storie - riprendendo il titolo - e creandone delle nuove. I suoi ragionamenti e la sua capacità di mettere insieme i pezzi del puzzle, come una piccola Sherlock Holmes, riescono a districare la vicenda sino all'amara conclusione.
Alla fine, però, Annabell ha imparato che quello che dice e fa è importante e può aiutare o distruggere la vita di qualcun altro. 

Mio padre guardò prima mia madre e poi me con gli occhi pieni di domande. E adesso cosa facciamo? Come facciamo a saper cosa fare?                                                         Me lo chiedevo anche io. Ma sapevo che non potevamo stare un minuto di più senza fare niente. Sapevo che non avrei potuto crescere e vivere una lunga vita con la consapevolezza di non aver fatto tutto il possibile. E dovevo farlo subito. Prima che diventasse inutile. pp. 252
Sarà proprio la sua intraprendenza la chiave di svolta della narrazione. Peccato che al suo termine sia Betty che Toby, due personaggi profondamente diversi, ma per destino legati, lasciano la scena ancor prima di averli potuti conoscere meglio e più a fondo. La consolazione però è offerta dall'equilibrio ristabilito e dalla nuova consapevolezza di Annabell:
[...]guadagnarmi la mia fetta di autorità e la possibilità di contare qualcosa.

Questo libro ha fatto parte della mia lista dei libri da leggere fino a qualche giorno fa. Avevo letto delle recenzioni e ero stata incuriosita molto dalla storia e soprattutto dal titolo. In realtà, come ho potuto constatare al termine della lettura, il titolo è stato modificato rispetto all'originale Wolf Hollow, la Conca dei lupi, nome della valle in cui si svolge gran parte della storia narrata. Sembrerebbe che il titolo italiano voglia giocare sul doppio significato del termine "storie". La parola "storie", infatti, è ambivalente e, a seconda dei contesti, potrebbe significare "racconti" oppure "bugie"- in effetti la protagonista è un po' ossessionata dalla divieto di non raccontare bugie. Probabilmente la scelta del titolo vuole essere evocativa di entrambe le possibilità, anche perché nel raccontare delle bugie si creano necessariamente nuove storie. Anche se sulle bugie  ho una mia personale visione che forse racconterò con il post La lingua di Ana..

Dato che molti critici hanno descritto la protagonista una Huckleberry Finn in gonnella, nonché hanno definito il romanzo un erede de Il buio oltre la siepe, dedicherò le prossime settimane alla loro lettura.


Buona lettura e al prossimo libro!



 
 












mercoledì 23 maggio 2018

ELEANOR OLIPHANT STA BENISSIMO!




Mi chiamo Eleanor Oliphant e sto bene, anzi: sto benissimo.
Non bado agli altri. So che spesso mi fissano, sussurrano, girano la testa quando passo. Forse è perché io dico sempre quello che penso. Ma io sorrido. Ho quasi trent’anni e da

nove lavoro nello stesso ufficio. In pausa pranzo faccio le parole crociate. Poi torno a casa e mi prendo cura di Polly, la mia piantina: lei ha bisogno di me, e io non ho bisogno di nient’altro. Perché da sola sto bene.
Solo il mercoledì mi inquieta, perché è il giorno in cui arriva la telefonata di mia madre. Mi chiama dalla prigione. Dopo averla sentita, mi accorgo di sfiorare la cicatrice che ho sul volto e ogni cosa mi sembra diversa. Ma non dura molto, perché io non lo permetto.
E se me lo chiedete, infatti, io sto bene. Anzi, benissimo.
O così credevo, fino a oggi.
Perché oggi è successa una cosa nuova. Qualcuno mi ha rivolto un gesto gentile. Il primo della mia vita. E all’improvviso, ho scoperto che il mondo segue delle regole che non conosco. Che gli altri non hanno le mie paure, non cercano a ogni istante di dimenticare il passato. Forse il «tutto» che credevo di avere è precisamente tutto ciò che mi manca. E forse è ora di imparare davvero a stare bene.

Anzi: benissimo.
Il romanzo di Gail Honeyman mi è capitato così, come si dice, quasi per caso. Probabilmente il caso ha giocato anche un po' con i miei attuali compiti, ma in effetti se non fosse giunto a me non l'avrei cercato. Allora, forse è meglio chiamare la circostanza un vero e proprio colpo di fortuna.
Ho iniziato a sfogliare le prime pagine sulla rivista il Libraio di maggio, e non so, condizionata da altri pensieri, non riuscivo a capire bene che genere letterario fosse, non intuivo come la trama si sarebbe evoluta, non comprendevo i comportamenti della protagonista, eccetto la sua naturale avversione per l'ovvietà. Quando però il romanzo è arrivato in libreria, bhe allora, lì sì che si è aperto un mondo, un mondo nuovo. 
Come ho letto in molte recenzioni e commenti, ha qualcosa di assolutamente nuovo e indefinibile nel genere. Scrive, infatti, Elisabetta Migliavada, direttore della Narrativa e Vicedirettore Editoriale Garzanti, in un'intervista per il Libraio:
Questo romanzo possiede una forza narrativa che raramente ho riscontrato in altre opere. Incarna un ibrido letterario in cui confluiscono diversi elementi che vanno a creare un libro senza eguali. Perché c’è una protagonista irresistibile, imprevedibile, affascinante nel suo essere completamente fuori dal mondo e che tuttavia è per molti aspetti così vicina a ciascuno di noi, incarnando tutto quello che spesso non abbiamo il coraggio di fare o di dire.

Perché ha un ritmo paragonabile a quello di un giallo perfetto.
Perché custodisce colpi di scena completamente imprevedibili. E regala al lettore un finale non scontato, molto vero e umano al punto nel posare il libro ti rendi conto che hai letto qualcosa che rimarrà, dentro di te a lungo, e nella storia della letteratura.

La protagonista, Eleanor Oliphant, è una giovane donna di circa trent'anni che lavora da nove anni come contabile in un'agenzia di graphic design. Non ha amici, non ama la vita sociale e passa tutti i suoi fine settimana a casa da sola. Legge di tutto per amore di un sapere enciclopedico e funzionale a risolvere le parole crociate del Telegraph, ama i classici latini e la Austen. Si dimostra molto sicura di sé, alle volte un po' troppo, un aspetto che ben si lega al suo totale disinteresse per l'integrazione sociale di qualsiasi sorta.
Sin da subito emerge il suo essere assolutamente cerebrale, analitica, osservatrice e anche un po' cinica. Tuttavia, nonostante tutti i suoi apparenti difetti, il suo personaggio ti prende per mano e ti porta alla scoperta di sè, una scoperta che anche lei in effetti è chiamata ad intraprendere. 
Nelle prime pagine, e per buona parte del romanzo, lei si definisce così:

Sono sempre stata orgogliosa di cavarmela da sola nella vita. Sono l'unica sopravvissuta, sono Eleanor Olephant. Non ho bisogno di nessun altro: non c'è una grande voragine nella mia esistenza, nel mio puzzle privato non manca alcun tassello. Sono un'entità autosufficiente. O almeno è quello che mi sono sempre detta.
Ha una definizione per tutto, oltre che per se stessa, non a caso i cruciverba sono i suoi passatempi preferiti. Ha un carattere disincantato, privo di attenzione verso le regole sociali - anticonformista per eccelenza, ma senza essere appariscente - si esprime senza veli, dice esattamente ciò che pensa. 
È interessante, durante la lettura, sentirsi dondolare tra i suoi pensieri e il modo in cui gli altri protagonisti, ignari di ciò che lei pensa e sente, reagiscono. Il suo comportamento, le sue reazioni alle volte sono spiazzanti, ma è innegabile il loro fascino. Pur essendo sincera come pochi, la sua sincerità si tinge di ironia, alle volte troppo sottile, tale da rendere le vicende quotidiane quasi divertenti. In motli episodi mi sono trovata a sorridere o a ridere di gusto, la sua onestà è così sorprendente che capovolge la "normale" lettura della vita di tutti i giorni. Ed è stato anche questo uno degli aspetti che mi è piaciuto molto: riscoprire l'ordinarietà nella sua banalità. Un apparente gioco di parole, ma solo leggendo il romanzo si può coprenderelo. 

Tuttavia, serpeggia sempre un senso di velata e nascosta tristezza. Un passato incombente, non detto, taciuto, da lei volutamente nascosto... Non è chiaro cosa le sia accaduto, ma poco alla volta qualcosa emerge, sempre di più, fin quando la verità, spiacevole e triste, le si presenta e può solo affrontarla. Una verità che nasce in lei, Eleanor, che per anni ha cercato di annegarla tra lavoro, vodka, e brevi e taglienti conversazioni con la madre, per riportarla a rinascere. 
E come spesso accade nella vita, solo quando Eleanor inizia ad aprirsi a qualcuno, quando lascia che Sammy e Raymond possano entrare nella sua vita, che inizia il cambiamento. Eleanor a sua insaputa, dà origine a quello che la stessa autrice ha definito un vero e proprio circolo virtuoso.

Il romanzo è sorprendente e regala passaggi inaspettati e imprevedibili, sino alla sua conclusione che non ha nulla di banale, anzi. La matassa della vita di Eleanor a metà del romanzo incomincia a dipanarsi e si scopre una persona diversa da come si era presentata al lettore e a sè stessa.. Peccato che il suo cammino è un work in progress, e che sia lasciato a noi lettori il compito di immaginarne l'evoluzione. Un'evoluzione che in modi diversi coinvolge anche il lettore e fa porre delle domande.

Non è un caso che Eleanor Oliphant sta benissimo, sia stato inserito dal Guardian nel filone emergente up-lit, che sta per uplifting, quindi “letteratura edificante”; si parla di romanzi che, chiusa l’ultima pagina, fanno stare meglio. Dopo aver chiuso l'ultima pagina ho sentito che il cammino di Eleanor è un cammino che in fondo tutti dovremmo intraprendere. Scoprire se stessi fa stare meglio!

sabato 27 gennaio 2018

UNA MEMORIA PER IL DOMANI

Accanto al pensiero, al linguaggio, all'affettività e all’intelletto, la memoria è una fra le più importanti funzioni cognitive che la natura ci ha donato. Si sviluppa sin dalle prime fasi di vita, tassello dopo tassello, e si nutre di riflessione, conoscenza di sé e conoscenza del mondo attorno a sé. Questo per dire che la memoria è uno strumento flessibile e in continuo “aggiornamento”.
Un altro aspetto interessante della memoria e dell’atto stesso del ricordare, è che si alimenta di emozioni, ha in sé un’alta intensità affettiva. Penso, ad esempio, come sia la lingua inglese che quella francese abbiano mantenuto quest’idea dell’affettività nei modi di dire learn off by heart o apprendre par coeur. In realtà, anche l’italiano ha conservaro questo legame con il “cuore”: ricordare dal latino recŏrdari, da corcordis «cuore», perché il cuore era ritenuto la sede della memoria.
Insomma, sembrerebbe che il ricordare, il mantenere traccia di qualcuno o qualcosa, necessiti di un coinvolgimento emotivo.

Perché ho voluto fare questa premessa?
Certo, in primis, perché oggi si celebra la giornata della memoria, una ricorrenza internazionale per commemorare le vittime dell'Olocausto, ma anche perché mi sono interrogata quanto questa memoria che è viva, è legata al cuore e ci aiuta nella percezione di noi stessi e del mondo, ci abbia davvero insegnato a non rendere la storia il tapis roulant dell’eterno ritorno?
Approfittando di questo giorno che ci vede predisposti a non dimenticare, vorrei portare l’attenzione ad un passato recente, anzi recentissimo, anzi, meglio ancora, attuale. E lo voglio fare a partire da queste immagini:

La Crepa, Frontiera di Orestiada, Grecia, p.38
La Crepa, Centro di prima accoglienza,  Orestiada, Grecia, p.41

Non sono immagini di Auschwitz, né di un altro campo di concentramento nazista, sono le immagini  di una recente frontiera europea, in Grecia, una delle tante frontiere nate per proteggersi e difendersi. Queste sono sempre le giustificazioni. Ma da cosa ci si protegge veramente?
Che piaccia o no, i ghetti, le chiusure, le barriere servono per delimitare, per esercitare potere e, soprattutto, per allontanare un immaginario e poco conosciuto nemico. Intanto, però, come scrive Carlo Greppi:
Su quei confini la gente aspetta, la gente prega, la gente muore. 
Le due immagini sono tratte dal foto reportage La crepa per El Paìs Semanal del fotografo Carlos Spottorno e del giornalista Guillermo Abril. Un lavoro che nasce da un viaggio di tre anni tra le frontiere che vanno dall’Africa settentrionale all’Artico.

Il viaggio, che doveva prevedere solo Melilla, il confine fra Grecia, Bulgaria e Turchia, nonché Lampedusa, si è trasformato in una lunga esplorazione poiché “la crepa” attraversa l'Europa in tutta la sua estensione.

La Crepa di Spottorno e Abril, Add editore; Origami rivista n.108, 2018 così cambiano i confini del mondo.

Scrive Fabio Geda nella prefazione al reportage:
È impressionante vedere un’Europa sorta come reazione alla Seconda Guerra Mondiale, ritornare a piegarsi su se stessa, avere nuovamente paura di un “popolo nemico”(corsivo aggiunto). È impressionante constatare quanto poco abbiamo imparato dalla storia recente.
In effetti, dopo aver letto il libro che, tra l'altro, ha il pregio di avere la forma del fotoromanzo, permettendo al testo di dire tanto e in poco tempo, ci si chiede dove stiamo andando e quanto nelle nostre menti, nel nostro modo di ragionare è cambiato dagli orrori della Seconda guerra mondiale. Non è un caso se gli stessi autori del reportage hanno scritto di aver avuto quella sensazione di impotenza di fronte alla storia che si ostina a ripetersi.

Ed è proprio questa la sensazione che si ha quando si accende la tv, quando si legge un giornale e quando si ascoltano le persone al bar. 
Ma cosa ci ha insegnato la storia? A me sembra poco, troppo poco. C'è sempre un popolo nemico che compie le azioni più oscene, che viene per rubare, che si carica di tutti i difetti immaginabili... la lista è enorme, quasi come la nostra cecità.

La migrazione è un fenomeno antico quanto il mondo. Ci si sposta per diverse ragioni, ma tutte nascono dal desiderio umano di essere felici e trovare la pace. Anziché giudicare l'altro e renderlo bersaglio delle nostre piccolezze in quanto popolo e in quanto amministratori dello spazio che la storia ha reso Italia prima ed Europa poi, dovremmo cogliere da questa situazione di emergenza la possibilità di riflettere, conoscere e allargare le nostre vedute. Il fenomeno migratorio, che sta attraversando l'intero continente europeo, è solo la faccia visibile dei modi e delle forme in cui il mondo sta cambiando.



Il titolo, infatti, preannuncia la scoperta di una ferita che attraversa il nostro modo di percepirci cittadini europei. "La crepa è la storia di uomini e di donne. Di ciò che siamo e vogliamo diventare. La storia di un’Europa che, […] deve esistere come frutto della nostra volontà" scrive sempre Fabio Geda nella prefazione.

Quante crepe culturali e strutturali ci sono ancora oggi che hanno tutto il sapore della visione bieca e distorta pre-guerra? I nazionalismi emergenti, la chiusura delle frontiere, il populismo imperante, l'islamofobia..... E quanto ci vorrà prima che l’edificio crolli di nuovo?




Approfondimenti:
Ecco l'intervista di qualche giorno fa a Carlos Spottorno durante la trasmissione "Il mondo insieme", in onda su TV2000.

lunedì 8 gennaio 2018

FESTINA LENTE: AFFRETTATI CON LENTEZZA

L'anno nuovo ha fatto già il suo ingresso e, come spesso accade, a lui sono stati affidati i nostri sogni e desideri non ancora realizzati. C'è chi con l'anno nuovo pianifica ed organizza la propria vita in vista degli obiettivi da raggiungere e chi, invece, lascia che gli eventi facciano da soli il proprio corso. 
Ma come la pensavano gli antichi e gli uomini del Rinascimento a tal proposito? Quanto delegavano alla Fortuna o al Caso la riuscita dei propri obiettivi e quanto alla propria capacità di agire?

Come sempre è stato un libro a darmi una nuova visione. Il libro in questione è Misteri pagani nel Rinascimento di Robert Wind, un libro appuntato molti mesi fa nella mia lista Libri da leggere, e che si sta dimostrando uno strumento fondamentale per approfondire l'arte e la cultura italiana del '500.
Questo post, però, è dedicato ad un solo capitolo del libro - Capitolo 6 - o meglio ad una manciata di pagine di questo.



Il titolo stesso del capitolo in questione è eloquente:  La maturità è tutto. Non è di certo la maturità scolastica, né la maturità degli anni l'oggetto, quanto la maturità intesa come l'essere maturi, l'essere pronti. Per che cosa? Ci si chiede. Bene, la maturità per agire e concretizzare i nostri desideri.
L'uomo di ogni tempo si è interrogato su come rendere le proprie azioni decisive e limitarne quelle vane e inutili. Di ciò racconta anche Aulo Gellio in Notti Attiche, scrittore romano del II secolo d.C. , che attribuiva all'imperatore Augusto il motto festina lente
Scrive a tal proposito Maria Beatrice Bongiovanni, docente di storia dell'arte presso l'Università La Sapienza di Roma :
Si trattava di un invito morale e politico: la frase è basata sull'ossimoro che unisce i movimenti opposti dell'affrettarsi e del muoversi con lentezza, una frase con cui Augusto ammoniva i suoi generali affinché agissero allo stesso tempo con tempestività e prudenza.
L'imperatore, infatti, considerava la maturità una saggia combinazione di rapidità e di pazienza: lasciarsi andare all'azione, ma mantenendo il controllo su di sè. 
Durante il Rinascimento, quando la riflessione sulla lingua divenne centrale negli studi, proprio per la riscoperta dei testi antichi, l'attenzione cadde sul significato dell'avverbio latino mature. 
Il motto festina lente, "affrettati lentamente", divenne così la massima universale per descrivere un atteggiamento saggio e maturo per l'azione. 
Non solo gli scrittori si cimentarono nello studio ed approfondimento del motto agusteo, ma anche gli artisti che riuscirono a rendere la medesima idea ossimorica in una illimitata varietà di immagini.

Emblema Aldino, Festina lente
L'immagine di un àncora con il delfino, connubio perfetto tra movimento e fermezza, fu proposta come marca tipografica da Aldo Manuzio il Vecchio, a partire dalla pubblicazione dei Poetae Christiani del 1502. Lo stesso emblema si ritrova anche su delle monete imperiali, in qualità di signum in onore a Nettuno: un aureo e un denario argenteo di Tito del 79-80 d.C., due denarî argentei di Domiziano dell' 81 d.C.
Il motto in connessione con l'emblema viene trattato negli Adagia di Erasmo da Rotterdam pubblicati per la seconda volta a Venezia da Aldo Manuzio nel 1508.

Xilografia dall'Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, Aldo Manuzio Sr., 1499 
Velocitatem sedendo, tarditatem tempera surgendo

Nel Hypnerotomachia Poliphili, romanzo allegorico pubblicato da Aldo Manunzio il Vecchio nel 1499, il motto del festina lente viene raffigurato con una donna seduta mentre la gamba sinistra è in atto di alzarsi e, in opposizione significativa, tiene nella mano destra due ali mentre nella mano sinistra una tartaruga, da cui la frase velocitatem sedendo, tarditatem tempera surgendo. Un vero rebus visivo che rende l'idea del bilanciamento delle due forze. 
 L'unione dei contrari è qui espressa sotto forma di messaggio cifrato che utilizza una stravagante contrapposizione rendendo memorabile l'immagine. (E.Wind 1958)
Altre immagini celebri possono essere rintracciate in un affresco a monocromo della scuola di Mantegna presso il Museo di Palazzo San Sebastiano, a Mantova.

Occasio e Poenitentia , Scuola Andre Mantegna, 1500.

Qui una mobile figura del Caso con le ali ai piedi su una sfera in movimento, invita un giovane ad afferrarla al volo. Dientro il giovane, una figura quieta e stabile, come dimostra anche il blocco di pietra che la sorregge, immagine della Saggezza, frena l'impazienza del giovane pronto a seguire il Caso. Il giovane è posto sotto la protezione della virtù moderatrice per eccellenza, che gli tocca il petto per suggerire al cuore cosa fare, mentre la divinità veloce, anch'essa amica, lo invita alla velocità. L'azione è al tempo stesso impaziente e ferma, incarnando appieno il motto festina lente.

L'emblema della tartaruga con la vela di Cosimo I de' Medici

Un'altra celebre rappresentazione è quella che si può vedere a Firenze nella Sala degli Elementi affrescata da Giorgio Vasari per celebrare le imprese di Cosimo I de' Medici. Anche in questo caso l'immagine ha il carattere ossimorico del motto che la sostiene: una tartaruga con una vela gonfia sul suo guscio. L’immagine divenne il simbolo della flotta medicea, che doveva incarnare in sè la tranquillità della tartaruga, dal passo lento e misurato, e al contempo la velocità e la potenza di una vela gonfia.

Queste e le innumerevoli altre combinazioni emblematiche adottate per rappresentare il felice motto augusteo, hanno tutte lo stesso messaggio: la maturità si raggiunge mediante una crescita di forza in cui rapidità e fermezza si sviluppino di pari passo. (E. Wind 1958)

Ho voluto dedicare questa breve ricerca a tutti coloro che nel momento dell'agire non sanno o non hanno saputo se ascoltare l'impulso o attendere.. Beh, di sicuro ogni situazione necessita di un agire differente, ma non dimentichiamoci che solo quando un frutto è maturo può essere gustato pienamente.

Buon anno nuovo a tutti!