sabato 24 settembre 2016

L'educazione proibita


COME MUORE IL BUON SENSO

Molti anni fa, dopo un bel lavoro con la classe che io e la mia collega Alessandra seguivamo come volontarie, ritirandoci a casa, ci ritrovammo a parlare di metodi educativi alternativi. A dire il vero, non ero molto informata, avevo solo vaghe idee. Alessandra invece, che usava documentarsi con maggior serietà, mi volle presentare nel dettaglio una scuola, la scuola di Barbiana. Era la prima volta che la sentivo nominare, ma scaturì in me un immediato interesse.
La scuola era nata nel 1956 ad opera di don Lorenzo Milani, un sacerdote di soli trentuno anni ed era vissuta poco dopo la sua morte 1968. Barbiana era ed è un piccolissimo paese, se così lo si può chiamare[1];  all’epoca contava circa quaranta persone, gente semplice, lavoratori che, come tanti altri italiani di quel periodo, non avevano avuto la possibilità di ricevere un’istruzione superiore. Non era la prima volta che il giovane parroco si cimentava in un’impresa tanto nobile, istruire i più poveri, difatti già a Calenzano, dove era stato cappellano, aveva organizzato una scuola serale per giovani operai e contadini.
Scrive Michele Gesualdi, presidente della Fondazione Don Lorenzo Milani
Per lui prete la scuola era il mezzo per colmare quel fossato culturale che gli impediva di essere capito dal suo popolo quando predicava il Vangelo; lo strumento per dare la parola ai poveri perchè diventassero più liberi e più eguali, per difendersi meglio e gestire da sovrani l’uso del voto e dello sciopero. […]“Voi – diceva – non sapete leggere la prima pagina del giornale, quella che conta e vi buttare come disperati sulle pagine dello sport. E’ il padrone che vi vuole così perchè chi sa leggere e scrivere la prima pagina del giornale è oggi e sarà domani dominatore del mondo”.[2]
Don Milani operava affinché i giovani che seguiva potessero usare la loro testa, ragionare, diventare padroni del loro futuro.
Dopo aver ricevute queste prime informazioni, decisi di iniziare a cercare qualcosa di più, insomma fare quello che non avevo ancora fatto: documentarmi. Ero interessata a comprendere come avesse organizzato la scuola, quale metodo avesse adottato per raggiungere un così alto e giusto ideale.
Era una scuola di avviamento industriale dove don Lorenzo Milani era insegnante unico. Una scuola poverissima, organizzata in Canonica, con un solo libro di testo; i ragazzi, a turno, leggevano la lezione e don Lorenzo spiegava.[…] i tavoli e le sedie costruiti dai ragazzi per iniziare la scuola, la prima carta geografica fatta a mano, l’atlante storico murale, lo studio del Parlamento Italiano, la piramide della selezione scolastica, la formazione delle Repubbliche in Europa, la nascita degli Stati indipendenti dell’Africa, la conquista del diritto Universale del voto, l’astrolabio costruito dai ragazzi e molto altro. Era una scuola diversa da tutte le altre: diversa negli orari, diversa nei contenuti, diversa nei metodi di insegnamento.
Rimasi ancora più sorpresa quando ho letto:
Era scuola la lettura della posta e del giornale che veniva letto ad alta voce tutti i giorni e diventava occasione per fare geografia e storia contemporanea, per approfondire le questioni sociali, politiche e sindacali. Ogni articolo veniva sviscerato a fondo con costruttiva criticità, separando le forzature di parte dalle verità. Era scuola l’osservazione delle stelle, imparare a sciare, a camminare sui trampoli, a nuotare, a dipingere dal vero. Era scuola l’apprendimento della lavorazione del legno e del ferro, per questo furono attrezzate due stanze al piano di sotto della canonica: la fucina e l’officina per lavorare il legno e il ferro. Qui si costruivano gli oggetti utili per la scuola, la chiesa e la casa.
Era una scuola a tempo pieno, dalle 8 del mattino fino alle ore 7 di sera, con una breve interruzione per mangiare. Chi non abitava vicino, mangiava sui tavoli della scuola il fagottino che si era portato da casa.
Le tante ore di scuola consentivano di andare a fondo ad ogni materia. Spesso il risultato finale dello studio veniva visualizzato con grafici appesi alle pareti della scuola. Ad esempio i grafici della composizione del Parlamento sono il risultato di mesi e mesi di approfondimento: occorreva saper tutto dei partiti, come erano nati, quale era la loro ideologia, chi li guidava, la loro forza elettorale, le loro posizioni caratterizzanti e ancora la composizione dei vari Governi,la conoscenza della macchina organizzativa, i regolamenti della Camera e del Senato, i Gruppi e le Commissioni parlamentari.
Vi era sempre corrispondenza fra lo studio teorico e la pratica.[3]
La mia sorpresa dipendeva da anni ed anni di formazione scolastica e universitaria che, sebbene a me piacesse, non mi ha dato gli strumenti per leggere la realtà che mi circondava, per conoscerla e valutarla. Non mi è stato dato nessuno strumento pratico, non potevo dire di saper fare qualcosa, e quando quel mondo fatto di esami, libri, e belle teorie è finito, sono finite anche le mie certezze poiché il mondo parlava una lingua che non conoscevo.  
Ritornando all’argomento, tra le belle ed interessanti novità che scoprivo, trovai il testo Lettera a una professoressa, scritto dagli studenti della scuola e pubblicato nel 1967.
Quando ero studentessa mi ero assuefatta a vivere la scuola e i suoi metodi senza pormi molte domande, direi che la vivevo abbastanza passivamente: programmi scolastici, interrogazioni, votazioni, esami, nulla mi sconvolgeva più di tanto, per me era tutto normale e anzi quasi indiscutibile. Invece, leggendo il libro e avendo avuto una breve ma significativa esperienza come insegnante di lingua italiana per stranieri, mi sono ritrovata a riflettere seriamente su quanto davo per scontato – effetto di un graduale e profondo assopimento scolastico.
Non voglio dilungarmi sui punti trattati nel testo del ‘67, poiché sono diversi quelli che hanno destato il mio interesse e un conseguente ripensamento sull’idea di insegnante e di insegnamento, mi limito a presentarne uno solo: la votazione.

La più accanita protestava che non aveva mai cercato e mai avuto notizie sulle famiglie dei ragazzi. «Se un compito è da quattro io gli do quattro». E non capiva poveretta, che era proprio di questo che veniva accusata. Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto fare le parti uguali tra disuguali[4].
La mia attenzione si è focalizzata sul tema della valutazione perché sembra che a scuola tu sei un voto, un numero, e che questo numero dice non solo quanto sai ma anche quanto vali. Lavoro spesso con i bambini e non so quante volte ho sentito queste frasi: «Mio figlio va molto bene a scuola. Sì, sì è proprio bravo, non mi dà preoccupazioni,  oppure «Mia figlia è terribile, a scuola un disastro, non le piace». Sembra che andare bene a scuola o andare male ci dicano anche come siamo, brave persone o cattive persone.
Dal mio punto di vista, credo sia importante chiedersi cosa impari il bambino, l’adolescente, il ragazzo a scuola: impara ad amare, ad essere felice, ad avere rispetto per le persone, per l’ambiente, per gli animali? O sta imparando delle nozioni che dimenticherà?
Si può davvero misurare la conoscenza di una persona? Mediante esami, prove e quiz? Si può ignorare totalmente la persona che si ha di fronte e ritenere che un modello di valutazione possa essere unico e universale adatto a tutti?
C’è un bellissimo metalogo, “Quante cose sai?”, riportato nel libro di Gregory Bateson[5]che mi sembra  adatto come prima risposta alle mie domande. Un libro che mi è capitato da qualche giorno di consultare e che si sta rivelando una miniera di spunti di riflessione. Nel metalogo citato, la bambina chiede al padre quante cose sa e il padre cerca di dare una serie di risposte che porteranno in ultimo la figlia a comprendere da sé la sua risposta; il ritmo è incalzante, nella parte conclusiva, la figlia chiede “Papà … c’è mai stato nessuno che ha misurato quanto uno sapeva?”, sembra che proprio qui la voleva portare. Del resto per sapere quanto il padre sa, la bambina vuole qualcosa di misurabile! La risposta del padre è davvero fantasiosa, ma arriva al punto:
P:“Oh, sì spesso. Ma certo non so quale fosse il significato dei risultati. Lo fanno mediante esami e prove e quiz, ma è come cercare di sapere quanto grande è un pezzo di carta gettandogli contro dei sassi.”
F:“Cioè, come?”
P: “Voglio dire… se tu getti dei sassi a due pezzi di carta dalla stessa distanza, e vedi che uno dei due pezzi è colpito più spesso dell’altro, allora probabilmente quello che colpisci è più grande dell’altro. Allo stesso modo, in un esame tu getti un sacco di domande agli studenti, e se vedi che colpisci più conoscenze in uno studente che negli altri, allora pensi che quello ne sappia di più. Questa è l’idea.”[6]
Il sapere non è fatto di pezzetti (come i pezzetti di carta dell’esempio )di sapere che poi vengono sommati aritmeticamente per ottenere quanto una persona sa! L’idea insana è pensare di misurare le singole parti senza tener conto dell’intero, ovvero della persona, in questo caso dello studente. In una società come la nostra dove si misura tutto, dove ogni cosa, sentimento, persona ha un valore numerico-monetario è difficile sganciarsi da un modello così usato ed abusato.

Una volta, parlando di concorsi, scuola e via discorrendo, un insegnante mi disse: «per sapere se una persona è portata per l’insegnamento non serve sapere quante nozioni ha imparato, certe quelle servono, ma non sono l’unico aspetto da valutare. Metti, piuttosto, un bambino in una stanza con più futuri insegnanti e guarda dove il bambino si dirige. Quella è la persona che più gli è adatta». Continuò dicendomi: «ma per arrivare ad una consapevolezza del genere dovrebbe cambiare tutto il sistema scolastico, compreso ciò che insegnano agli insegnanti».
 Ad essere sincera quando sentii questa idea la trovai carina ma bizzarra. Pensai che fosse poco seria. Ma ho dovuto ricredermi.  Mi è capitato di trovare, non per caso, questo pdf  Metodica di insegnamento ed esigenze dell’educazione. L’arte dell’educazione sulla base di un vera conoscenza dell’uomo. Si tratta della prima conferenza di Rudolf Stainer a Stoccarda tenuta l’8 aprile del 1924. E cosa leggo:

[…]Perché l’uomo può educare e istruire soltanto quando comprende quello che deve formare, che deve plasmare,come il pittore può dipingere soltanto quando conosce la natura, l’essenza del colore e come lo scultore può lavorare soltanto quando conosce la natura della sostanza che usa, e via dicendo. Quanto è valido per le altre arti che lavorano con materie esteriori, perché non deve essere valido per quell’arte che lavora alla materia più nobile che mai possa esser posta di fronte all’uomo, che lavora all’essere umano, al suo divenire e al suo sviluppo.
[…] Noi impariamo a fare quello che dobbiamo nell’istruzione, nell’istruzione intellettuale, nella direzione degli impulsi della volontà, solo quando sappiamo che cosa opera dunque tra maestro e bambino,solo per il fatto che maestro e bambino si trovano di fronte, ognuno con una particolare natura, con un particolare temperamento, con un particolare carattere, un particolare grado di sviluppo, una particolarissima costituzione fisica ed animica. Prima di incominciare in qualche modo a istruire, a educare, siamo di fronte, noi e il bambino. C’è già un operare tra i due. Come è il maestro di fronte al bambino? Questa è la prima domanda importante. […]
[…] dalla nostra civiltà attuale, che ha già provocato sufficienti danni nel campo dell’esistenza umana, nasce l’esigenza di avere una risposta alla domanda seguente: come si può giungere da singole osservazioni che si fanno con esperimenti, con statistiche o con altre belle cose simili, come si può giungere da queste singole comode osservazioni, che oggi formano quasi esclusivamente la base della pedagogia e della didattica, a una pedagogia e a una didattica che osservino ugualmente l’intera vita umana e l’eterno nell’uomo che solo come un barlume in essa traluce?
[…]si è poi dell’idea che chi abbia imparato quanto si deve insegnare, potrà poi insegnare qualcosa ad un altro. Se io stesso ho imparato qualcosa, sono per così dire autorizzato a insegnarlo a un altro. Sovente non si vede affatto come l’atteggiamento interiore in rapporto al temperamento, al carattere e così via, - scaturito dall’autoeducazione del maestro o dalla preparazione scolastica, come vedremo - stia nello sfondo di quanto il maestro può appropriarsi, per istruire ed educare, mediante quanto egli stesso impara ed accoglie.
[…]Per il bambino piccolo, fino alla seconda dentizione, quello che è più importante nell’educazione è l’uomo. Per il bambino dalla seconda dentizione alla pubertà la cosa più importante nell’educazione è l’uomo che si trasforma; in vivente artisticità di vita. E solo a quattordici, quindici anni il bambino esige, per un insegnamento educativo e per una educazione istruttiva, ciò che noi stessi abbiamo imparato; e questo dura fino oltre il ventesimo, ventunesimo anno, quando il ragazzo è completamente cresciuto[…]
È chiaro che non si può prescindere dalla persona , davvero la formazione è su misura e, non è semplice pignoleria ribadire che, il metodo di valutazione non esiste prima della persona, ma lo si costruisce contestualmente a chi abbiamo di fronte. Allo stesso modo, diventa importante pensare  ai contenuti disciplinari e dell’anima che si insegnano e si trasmettono.

In un libro comprato di recente, Il metodo dell’antroposofia di Stainer, ho letto: «voi, uomini moderni, non sapete in realtà più nulla dell’essere umano, perché non sapete in fondo nulla di valido sul mondo»[7]. È la prima parte di un dialogo immaginato da Stainer tra un uomo della civiltà ellenica e un uomo dei nostri giorni. L’uomo dei nostri giorni replica piccato e saccente che oggi conosciamo più di settanta elementi, la base di tutto ciò che vediamo e conosciamo del mondo.  Ma la risposta che l’ateniese dà è sorprendente: «ciò che imparate a conoscere con l’aiuto dei vostri settanta elementi riguarda unicamente l’uomo nella tomba, il cadavere umano. Grazie alla vostra chimica e fisica, vedete cosa avviene nell’uomo divenuto cadavere, ma non potete sapere assolutamente nulla dell’uomo come vive e si sviluppa tra la nascita e la morte».  
Difatti a scuola cosa abbiamo imparato?! Processi logici, concetti astratti, e tantissime informazioni parzialmente vere, o comunque già superate. Come si crea allora il pensiero critico, la capacità di porsi domande, e come si mantiene il buon senso quando siamo continuamente costretti a minarlo con “l’ha detto tizio o caio e non si discute!”?? Semplice: non si crea e ciò che di buono e innato abbiamo in noi, il pensiero pre-logico, si perde.
Ma allora perché ci hanno voluto formare a tutti i costi?
Lo racconta benissimo Roberto Denti in La corsa del burattino: breve storia delle letture per bambini, primo capitolo del libro I libri per ragazzi che hanno fatto l’Italia [8]. Denti scrive:
Si dovrà aspettare fino al 1877 perché il Ministro della Pubblica Istruzione Coppino faccia applicare la legge Casati sull’istruzione obbligatoria. Qui è necessaria un’altra precisazione. Perché il nostro Paese affronta questo problema ad anni di distanza rispetto all’Inghilterra, Germania, Belgio, Francia ecc…? Non per l’indolenza dei governanti, ma perché la situazione sociale italiana era ben diversa da quella di altri paesi nei quali la rivoluzione industriale era già iniziata. L’Europa, soprattutto al Nord, vede, prima dell’Italia
(e della Spagna e della Grecia) la trasformazione della società agricola e artigianale in società in cui prende il sopravvento l’industria. Per diventare contadino e artigiano è sufficiente, sin dai sei-sette anni, osservare il lavoro dell’adulto e quindi imitarlo. L’industria, invece, richiede un procedimento logico-astratto per far funzionare una macchina utensile. L’unico modo per sviluppare il pensiero logico (superando quindi quello imitativo) è l’apprendimento della scrittura, della lettura e dell’aritmetica. La scuola dell’obbligo non è quindi dovuta all’applicazione di principi sociali e morali ma nasce dalla necessità di preparare mano d’opera in grado di rendere possibile il processo e lo sviluppo dell’industrializzazione. [9]

A questo punto, ho perso per davvero le certezze e la fiducia, già abbondantemente minate, nel sistema scolastico. Quante energie, forze, anni persi ad apprendere qualcosa che non serviva a me ma ad un sistema corrotto ed ignobile.
Diceva bene il papà in conclusione al metalogo citato, quando risponde alla figlia del perché non usi l’intero suo cervello:
Ah sì…già…vedi , il punto è che anche io ho avuto degli insegnanti a scuola. E loro hanno riempito circa un quarto del mio cervello di fumo. Poi ho letto i giornali e ho ascoltato quello che dicevano gli altri, e così mi son riempito un altro quarto[…] l’ultimo quarto oh quello è il fumo che ho fatto da me quando ho cercato di pensare da solo.[10]
Per darvi prova che quanto ho scritto non sia frutto di mie allucinazioni e di qualche scrittore, e/o educatore sui generis, vi propongo questo video. Anch’esso capitatomi per caso mentre sfogliavo la mia pagina di Google+. 
Credo che non debba spendere altre parole per introdurlo, parla da sé e parla bene. Come faccio a dirlo? Citando Pasolini[11], che a sua volta citava Berenson “ qual è il metodo pratico per  giudicare la bellezza di un libro? Bhè per l’aumento di vitalità che dà!”
Ed ecco il video, L’educazione proibita








[1] Barbiana non è un paese, non è nemmeno un villaggio. Barbiana è una chiesa con la canonica. Le case, una ventina in tutto, sono sparse nel bosco e nei campi circostanti, isolate tra loro.  Tratto da: http://www.donlorenzomilani.it/barbiana/
[2] http://www.donlorenzomilani.it/biografia/
[3] http://www.donlorenzomilani.it/percorso-didattico/
[4] Lettera a una professoressa, Einaudi, pag.43
[5] G.Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, 1977 pp.52-57
[6] Ibidem, pag.55
[7]  R. Stainer, Il metodo dell’antroposofia, Medusa, Viserba di Rimini, 2014 pp.73-75-75
[8] I libri per ragazzi che hanno fatto l’Italia, a cura di Hamelin Associazione culturale, Bologna, 2011
[9] Ibidem p.11
[10] G. Bateson p.57