venerdì 1 settembre 2017

LA FUNZIONE DEL PADRE NELLA LETTERATURA PSICOANALITICA


Questo lavoro nasce dallo studio ed interesse personale verso le tematiche del rapporto tra padri e figli. Si presenta per questo come la sintesi del pensiero e del lavoro di alcuni autori contemporanei quali Yablonsky, M.Morganti e M. Recalcati, ai quali si rimanda per approfondimenti.
Seguirà un successivo post su Haley, Newmann, Lowen e Carotenuto, per rendere il quadro quanto più completo. Ciascuno studio individua quegli aspetti che consentono di ricomporre il difficile quadro della funzione ed importanza del padre.
Questa mia sintesi dei loro testi è un modo per diffonderne le teorie.

Buona parte degli studi psicologici e psicoanalitici ha posto l'attenzione sulla figura materna come figura centrale nello sviluppo del sé dei figli. Pur essendo la madre una figura di assoluto rilievo mi sono sempre chiesta quale fosse, nel gioco dei doveri familiari, la funzione del padre e come agisse la sua presenza ed educazione sulla prole. Questa domanda, e insieme il desiderio di andare più a fondo nella comprensione del sistema famiglia, oggi così barcollante, mi hanno portata a compiere questa ricerca, che come sempre non potrà mai essere né esaustiva né completa.
Il primo elemento che ha scatenato in me una serie di riflessioni è stata la lettura di questo articolo sulla figura del padre (http://6donna.com/articoli/psicologia/1214/la-figura-paterna-nello-sviluppo-del-se/):
Il padre simbolicamente rappresenta, nel sistema famiglia, colui che istituisce le regole e dunque l’istanza morale . Questa istanza o codice morale è la base della coscienza etico-sociale che guida il comportamento e le relazioni interpersonali. 
Ciò significa che il padre tanto marginale non è, anzi.. così dopo varie ricerche ho trovato una serie di spunti interessanti, che condivido con voi lettori. Ho letto vari autori come Freud, Jung, Yablonsky, Carotenuto, Haley, Lowen, Morganti e Recalcati... Questi studiosi hanno dato pari importanza alla figura del padre. Leggendo i loro testi è chiaro il lavoro di rivalutazione e riabilitazione del ruolo paterno importante fin dalla più tenera età.
Ecco perché dedico un post alla figura del padre e a quanto sia importante nella nostra vita.


  1. L. Yablonsky, Padri e figli:

Lewis Yablonsky fu un noto sociologo che nel corso della sua professione ha indagato il difficile quanto complesso ruolo della figura paterna nella nostra società, definendo i vari “prototipi” paterni. La sua analisi è stata centrata sui legami emotivi che uniscono padri e figli e su quali siano i doveri di ciascuno nella relazione. 
Egli, infatti, sottolinea come la paternità sia il compito più importante che un uomo possa svolgere. La responsabilità nei confronti di una nuova vita non è affrontata nello stesso modo da tutti i padri, ci sono padri che l’assumono in modo sconsiderato, senza interesse per l’influsso che possono avere sui loro figli, e padri che assumono il ruolo con passione e consapevolezza. Ovviamente tra questi due poli ci sono diverse sfumature che vanno considerate, poiché ognuna influisce sulla psiche del figlio e sul suo rapporto futuro con il mondo che lo circonda.
Esistono, poi, anche uomini che decidono volontariamente di non assumere il ruolo di padre.  Qualunque sia la risposta al loro rifiuto di paternità è bene sottolineare che oggigiorno diventare padre non è una risposta automatica ad un bisogno naturale bensì, come fa notare anche Recalcati nei suoi studi, è una risposta culturale e che pertanto implica una libera presa di coscienza. 
Il legame con un figlio è un legame emotivo e come tale si nutre della dimensione conscia e inconscia dell’adulto coinvolto. Lo stile paterno, infatti, cambia a seconda di come il genitore si vede e percepisce, di come ha a sua volta vissuto il rapporto con il proprio padre.
Uno degli influssi più significativi sullo stile paterno è costituito dall’impronta lasciata dallo stile del padre preso a modello. Si tratta di un fattore che sia a livello cosciente che non cosciente è sempre in opera. Molti uomini si comportano con i loro figli proprio come i loro padri: li amano, li consigliano, li allontanano come aveva fatto il loro padre.
L’addestramento alla paternità che un uomo riceve dall’osservazione ed imitazione del padre può essere spesso disastroso, come dimostrano le cosiddette “famiglie criminogene” ovvero quelle famiglie in cui i figli ripercorrono le orme distruttive e deleterie dei propri padri. Sono i casi di padri tossicodipendenti, violenti. È come se l’eredità criminale venisse trasmessa di generazione in generazione.
Gli stessi mass media hanno un effetto non trascurabile sulla figura del padre ideale occidentale, influenzandone notevolmente le azioni. Ovviamente, il modello proposto è un modello stereotipato e intriso di fantasie letterarie e immagini assurde che hanno un limitato rapporto con la realtà. Si rischia, nell’emularle, di inficiare un rapporto padre-figlio sano ed equilibrato a favore di uno totalmente illusorio.

 Gli stili paterni di Yablonsky
Ogni uomo sviluppa un personale stile paterno. Secondo lo studio effettuato da L. Yablonsky qualsiasi sia lo stile paterno ogni padre affronta nella sua relazione con il figlio periodi di odio-amore. Lo scrittore ha riconosciuto cinque differenti tipologie di stili paterni:
Il padre comprensivo
Il padre di questo tipo è un padre emotivamente sano, capace di porre i bisogni di suo figlio al di sopra dei propri. È capace di agire da doppio di suo figlio nel senso che è in grado di diventare un tutt’uno con lui, proprio come avviene in una seduta di psicodramma. Gli intensi sentimenti emotivi del padre amorevole garantiscono un atteggiamento affettuoso e benefico tanto per il padre quanto, soprattutto, per il figlio. È bene comunque sottolineare che per quanto un padre amorevole sia auspicabile per la crescita psicoemotiva del figlio, quest’ultimo è sottoposto a molteplici influssi nella sua formazione, influssi che un padre non può e non deve necessariamente controllare. Qualora il padre amorevole diventi eccessivamente protettivo nei confronti del figlio ne blocca la crescita interiore e la formazione del Sé. In un certo qual senso questo padre potrebbe soffocare e opprimere il figlio portandolo al fallimento.
Il padre coetaneo
Il padre coetaneo è un padre iperamorevole che, anziché assumere la propria posizione, cerca di essere un “amico” dei figli. A livello psicologico c’è un’immaturità di fondo ed è emotivamente un bambino. Un padre di questo tipo, pur riuscendo ad amare il proprio figlio, non ottiene nessuna forma di rispetto e né, cosa più importante, offre al figlio un modello da emulare. Di solito è un padre assediato dai problemi e tende a sfogarsi con i figli, proprio come se fossero dei coetanei, caricando il figlio di un peso non sopportabile per la sua età.
Il padre macho
Al lato opposto del padre coetaneo vi è il padre macho. È un uomo che ha un’idea esagerata della mascolinità e si comporta come se il figlio fosse un’estensione del suo Io. Infatti, la sua mascolinità ed identità personale sono legate alle prestazioni del figlio, chiaro riflesso dei suoi bisogni egocentrici.
Ha uno scarso interesse o partecipazione nello sviluppo dell’Sé del ragazzo. Spesso è violento o brutale, con le parole più che con i gesti, e tende a dirigere in modo esagerato la vita dei figli togliendo loro ogni autonomia.
Il padre psicopatico
Il fattore predominante di uno psicopatico è la sua totale mancanza di comprensione, per questo non è auspicabile che un soggetto con tali disturbi abbia un figlio proprio perché incapace di educarlo. Il suo comportamento è caratterizzato da un profondo disinteresse per i diritti e i sentimenti altrui, le sue azioni sono al servizio dell’ottenimento di vantaggi personali. Il suo “disordine caratteriale”, la sua totale incapacità di discernimento del bene e del male, lavora al contrario nella crescita e benessere di un figlio. Molti figli di padri psicopatici ricercano un padre sostituto o si attaccano ad una figura “psicopatica positiva”come i capi di culto e i leader pseudo-religiosi. 
Un padre psicopatico dimostra un totale disinteresse nei confronti del figlio, un disinteresse che non potrà essere colmato se non da sostituti, siano esse persone, credo religiosi o politici, nonché droghe.
Il padre egocentrico
Il padre egocentrico è un padre che agisce in modo psicopatico pur non essendolo nella personalità. È un uomo che dimostra freddezza e incuranza verso la crescita e lo sviluppo del figlio. Tuttavia, esistono padri egocentrici che, pur non essendo freddi, si comportano in modo competitivo verso tutti e tutto. Gli uomini che assumono questo atteggiamento si comportano allo stesso modo anche con i figli e i loro bisogni.
Di solito i padri di questo tipo vivono la relazione con i figli oscillando tra odio e amore; consciamente o inconsciamente avvertono il figlio, l’oggetto del loro amore, come un ostacolo al loro successo e alla piena realizzazione di sé. Di conseguenza è un padre che agisce negativamente sull’autostima e la personalità del figlio

Lo stile paterno ha un’influenza significativa sulla personalità di base del figlio e sul suo approccio alla vita. Il padre può, con i suoi messaggi ed insegnamenti, far avventurare il figlio nella vita con gioia e passione, oppure bloccarlo in una lotta autolesionistica con se stessi.
Uno dei risultati più significativi nel figlio del rapporto con il padre è quella di sviluppare una tendenza di personalità da padre o da figlio: gli uomini trascorrono la vita interpretando i ruoli paterni o filiali assimilati.
Per divenire un “padre efficace” l’uomo deve aver acquisito forza interiore, indipendenza e attitudine al comando (lo diventa, di solito, una persona che si è realizzata).
Il figlio di un padre amorevole e presente assume con scioltezza il ruolo paterno perché ammira e rispetta il proprio padre ed è convinto che emulandone i comportamenti avrà una vita felice e soddisfacente. Al contrario, i figli di padri egocentrici, psicopatici o macho rimangono degli eterni figli. Il loro ragionamento inconscio è “Non voglio diventare padre “ perché ciò significherebbe diventare il padre che hanno rifiutato, non possono identificarsi con lui e per questo rimangono ancorati a personalità filiali. Questo non significa che non possono avere figli, anzi, la paternità può diventare per loro occasione di cambiamento e di crescita interiore, ma è necessario che durante la prima fase della loro attività paterna, quando i figli sono ancora piccoli, rettifichino e rovescino gli stili paterni ricevuti attraverso un percorso di conoscenza interiore come, per l’appunto, la terapia analitica.

    Le tre fasi della paternità
L’analisi di L. Yablonsky ha fatto emergere, anche, quali siano le fasi nel rapporto tra padre e figlio, i loro reciproci bisogni e richieste che, ovviamente, cambiano con il crescere del figlio stesso.
Secondo lo studioso si possono riconoscere tre fasi evolutive. La prima fase è quella della fusione dell’Io del padre con il figlio ed è propria del periodo che va dalla nascita ai primi dodici anni di vita; la seconda fase, quella dell’inizio dell’indipendenza e della lotta del figlio per affermarsi e staccarsi dal modello familiare, ovvero il raggiungimento dell’ autonomia, va a seconda dei casi dai tredici anni agli oltre i venti; la terza fase quella dell’amicizia, che si fonda sul reciproco rispetto e stima tra padre e figlio adulto, questo rappresenta un’evoluzione ideale del rapporto, ma che non sempre accade. Ad interrompere e spezzare questo naturale processo collaborano tanti fattori, tra i quali i tipi di paternità assunti.

Problemi tra padri e figli
Ci sono tra padri e figli problemi transitori normali e problemi seri a lungo termine, così come problemi imprevisti. I problemi normali e transitori emergono soprattutto durante la fase adolescenziale e hanno origine nel bisogno di separazione e indipendenza del figlio dal nucleo familiare. I problemi, comunque essi siano, vengono considerati differentemente a seconda del punto di vista di chi li osserva, il padre li percepirà in un modo e il figlio in un altro, per questo, quando si presentano, vanno affrontati in modo da evitarne lo strascico per anni.
Nel caso di tossicodipendenze o atteggiamenti criminali da parte del figlio è chiaro che l’indagine psicologica debba coinvolgere necessariamente il padre e l’intero nucleo familiare. È stato dimostrato come molti casi di disadattamento sociale e problemi di dipendenza siano correlati da altrettanti problemi nel padre, è come se il figlio ne perpetuasse la “criminalità”. Molti fattori determinano la delinquenza giovanile, ma uno dei fattori centrali è proprio il rapporto con il padre. Soprattutto il padre che è incapace di seguire, dunque di interessarsi al figlio, genera comportamenti di ribellione e di estraneità dal vivere sociale. Anche i padri eccessivamente restrittivi, incapaci di attribuire un giusto peso alle azioni dei figli, possono essere causa di comportamenti o atti illeciti. L’etichetta che il padre affibbia al figlio in seguito ad un unico atto illecito può diventare per lui una sorta di marchio indelebile che provoca rabbia, rancore e che porta il soggetto a mantenere quel comportamento in essere.
Molti figli trovano una scappatoia dai propri problemi nell’abuso di alcol o di droga. Il padre incide e favorisce l’uso di queste sostanze sostitutive nel caso in cui egli stesso ne faccia uso e obblighi il figlio ad assistere o, peggio ancora, usi il figlio come capro espiatorio della propria dipendenza. Qui è necessario un intervento doppio da parte sia degli psicologi e assistenti sociali coinvolti e sia delle autorità. Nei casi in cui il padre reagisca esageratamente all’uso “culturale” di alcune droghe, specie nell’età giovanile, l’effetto può essere la generazione di un conflitto tra i soggetti che acutizzano nel ragazzo i bisogni di evasione. Ciò non significa passar sopra al problema quanto, piuttosto, ridimensionarlo.
Un altro problema che oggi sta diventando sempre più centrale, anche a livello pubblico, è quello dell’omosessualità. È appurato che i padri determinano in modo significativo le preferenze sessuali dei figli. Molti uomini omosessuali hanno avuto padri ostili e indifferenti e madri eccessivamente seducenti ed indulgenti. Qui il problema ha sia una radice nel rapporto del padre e della madre con il figlio e sia nel modo in cui il problema viene affrontato dei genitori nel momento in cui emerge. È un doppio rifiuto quello che può essere vissuto dal figlio, il primo come figlio in sé, il secondo come persona con proprie tendenze sessuali al di fuori di quelle accettate dal nucleo familiare.
Infine, ma non per questo meno rilevante, ci sono i problemi di salute, più o meno gravi, del figlio. Ci sono padri che li accettano e cercano di provvedervi e altri che non accettano questo loro “insuccesso” chiudendosi in un totale o parziale rifiuto della malattia.
Ciascuno di questi problemi, appartenenti ad aree differenti, può essere causa o effetto di una genitorialità mediocre o totalmente scarsa di cui i figli ne pagano le conseguenze.
Fare da padre, dunque, è un incarico faticoso e non privo di ostacoli, comporta amore e comprensione. È innegabile che la dimensione paterna di un uomo si modifichi anche a seconda dei cambiamenti del figlio, il quale si trasforma durante l’età e nel contatto con altre persone.
Nelle società più semplici padri e figli avevano un rapporto naturale, positivo e funzionale. Nella nostra società, invece, complessa e frammentata, i rapporti non sono così naturali e non rispondono a sole funzioni reali. I figli, infatti, vengono valutati in termini di costo e di tempo, criteri che nulla hanno a che fare con un rapporto umano, essendo criteri di produzione industriale. Affinché il rapporto venga vissuto in maniera sana è necessario, prima di tutto, che la paternità sia voluta e non un sia un “accidente” della vita. È importante che alla base, soprattutto durante la fase critica dell’adolescenza, ci sia un padre capace di comunicare, di creare una relazione con il figlio né troppo rigida da bloccarlo e né troppo lassa da lasciarlo a se stesso, l’ideale sarebbe una relazione elastica e flessibile ai cambiamenti. Ciò comporta un padre che sia forte interiormente ed autonomo emotivamente in modo da poter sopportare i mutevoli stadi della vita del figlio, e contemporaneamente essere in grado di fornirgli un appoggio e un modello di riferimento nella sua ricerca di Sé. La comunicazione, sincera e sentita, è garante di un rapporto che, pur cambiando, mantiene i legami e l’amore.

Quasi tutti i padri sentono la responsabilità di educare i propri figli rispetto alla società cui appartengono e a guadagnarsi da vivere efficacemente. Il padre per fare ciò non può e non deve essere lontano. Deve socializzare il figlio nel modo giusto, aiutandolo a partecipare alla vita. Altrimenti quando crescerà il figlio dovrà affrontare il mondo reale e sperimentarne tutti i problemi emotivi legato ad esso. Tutti i padri, poi, devono affrontare l’atto finale di lasciare andare i figli, in modo che diventino indipendenti e che imparino a contare su se stessi. Il padre può aiutare in questo favorendo il processo di indipendenza e fornendo se stesso come modello. Deve essere di sostegno e disponibile per consigli e pareri, pronto ad intervenire quando è necessario. Questa comunicazione, fatta di gesti, di presenza e di parole diventa costruttiva per la maturità del figlio. Ciò non significa che il padre deve essere un angelo salvatore o infallibile, no di certo. Anzi, conoscere il lato debole del genitore è a sua volta un’occasione per il figlio di confrontoi. Ma questo può avvenire solo quando il figlio ha già una sua maturità, ha sperimentato e superato le fasi del bisogno d’aiuto. Un padre debole con un figlio piccolo o adolescente non aiuta nella crescita psicoemotiva, poiché toglie al figlio un modello cui fare riferimento.
Un padre, che ha raggiunto la sua piena consapevolezza e che per di più si dota di strumenti conoscitivi delle fasi di sviluppo della sua relazione con il figlio, è di sicuro più consapevole di sé e della sua funzione. Non lascia al caso e alla vita il compito di allevare i figli.
Oltretutto, la relazione filiale consente quello che in psicologia viene chiamata la seconda opportunità. L’identificazione del padre con il figlio permette al primo di poter correggere le esperienze negative della sua esperienza con il proprio padre e di cogliere i diversi aspetti della propria personalità. Questo fenomeno è ben conosciuto da chi pratica o ha partecipato ad una seduta di psicodramma.
Un rapporto consapevole determina una crescita costante di entrambe i soggetti coinvolti e la possibilità di sentirsi connessi nella relazione poiché padre e figlio si percepiscono l’uno vicino all’altro.

2.    M. Morganti: Padri e figlie

Secondo il pensiero di C.G. Jung la mente è la somma di processi psichici, consci ed inconsci. Alcune funzioni inconsce compensano i nostri aspetti coscienti: le donne hanno una personalità cosciente femminile ma un elemento maschile inconscio, detto Animus, viceversa gli uomini hanno una personalità cosciente maschile ed una femminile inconscia, chiamata Anima. Tuttavia l’educazione, specie quella occidentale, crea la falsa illusione che noi siamo esclusivamente i nostri comportamenti esteriori. Si crea in questo modo un mancato contatto tra la dimensione interna e quella esterna, tra inconscio e conscio. Il benessere parte dall’equilibrio di questi apparenti opposti.
Se consideriamo gli studi psicoanalitici svolti sin ora sulla psicologia del femminile emerge che la donna è caratterizzata dall’essere ricettiva, passiva, istintuale e concentrata sulla propria soggettività. All’opposto la psicologia maschile tenderebbe alla razionalità, alla spiritualità e alla capacità di agire con determinazione fissando degli obiettivi. Tuttavia, tenendo conto delle spinte inconsce, ad esempio dell’Animus della donna, che si manifesta nel suo bisogno di indipendenza, di rivendicazione e di lotta intellettuale, si può comprendere come mai nel mondo vi siano diverse sfumature di femminile.
Secondo C.G. Jung, rispetto all’Animus, ci sono due modi di essere e vivere la propria femminilità: il primo, quello più diffuso e socialmente accettato, è che l’Animus venga represso e proiettato sul proprio partner; il secondo modo di agire dell’Animus è quello di portare la donna ad identificarsi totalmente con i comportamenti maschili, rendendo difficile lo svolgimento del ruolo tradizionale. Come tutte le cose, il bivio rappresenta la duplicità di uno stesso problema di fondo. È nell’equilibrio delle parti che si gioca il vero benessere e la propria completa maturazione interiore che vede la convivenza tra Animus ed Anima. Questa maturazione avviene durante l’incontro psicoemotivo con la figura paterna. Il padre “rompe” l’unione simbiotica con la madre e permette alla donna di intraprendere il suo cammino evolutivo verso il Sé.
La figura paterna svolge una funzione educativa fondamentale, separando il figlio/la figlia dall’unità materna egli propone un modello alternativo di relazione, non più simbiotico ed intimo, ma di azione verso l’esterno, di crescita e di cambiamento. Il padre, in virtù di questo ruolo, accompagna il figlio/la figlia verso la conoscenza del limite presente in ogni aspetto della realtà garante delle vita sociale. L’amore della figlia verso la madre e poi verso il padre rappresentano delle tappe nella formazione del sé che si concluderà con l’allontanamento prima dalla figura materna e poi da quella paterna.
I padri possono instaurare, però, differenti tipologie di relazione, a seconda dei casi le relazioni possono essere sia positive che negative. In questo caso prendiamo in considerazione solo il padre “positivo” in quanto rappresenta il modello di riferimento della paternità in generale.
Il padre “positivo” è un padre disponibile ad avere un rapporto responsabile ed autentico emotivamente con i figli, dei quali incoraggia lo sviluppo intellettuale, professionale e spirituale, questo a maggior ragione con la figlia. Infatti, nei confronti della figlia un buon padre dovrà dare valore alla femminilità di lei, insegnando ad avere comportamenti e valori che accrescano la stima in se stessa. Essere se stessi significa saper abbracciare i propri difetti, le proprie debolezze così come i propri pregi e virtù.
Un rapporto affettivo sano ed equilibrato si realizza con un padre che sappia protendere la mano in una carezza e, anche, che non tema di ricorrere alle punizioni di fronte alle trasgressioni, perché è impossibile trasmettere il senso del valore senza mostrare che esso ha un prezzo.
Il padre “positivo” si lascia idealizzare dalla figlia, ma permette anche di rimanere delusa dai limiti personali che lei scoprirà in lui, senza allontanarsi o rimanerne offeso. In questo modo il padre “positivo” mostra, come sostiene Recalcati, tutta la sua umanità, non è più un eroe invincibile ma un uomo, con pregi e difetti.
 Corazzata o eternamente figlia?
La psicologa M. Morganti ha evidenziato come a seconda del tipo di relazione che la figlia ha avuto con il padre ci saranno sviluppi dell’Animus differenti.
Quando un padre si mostra fragile, fallito sul lavoro, con dipendenze, depresso o assorbito da un matrimonio che non funziona, sviluppa nella figlia un Animus ferito che può assumere comportamenti da “guerriera corazzata”. La corazza è uno scudo di difesa verso tutto ciò che potenzialmente potrebbe ferirla. Questa barriera difensiva viene eretta in ogni situazione, sia in amore che con il mondo esterno; è una protezione verso ogni possibile dolore o delusione. Essa si innalza come risposta alla relazione fallimentare con il padre ma, dato che il padre simbolicamente è la figura che rappresenta l’Altro, questo schema rimane fisso anche nelle relazioni successive.
La forza che viene ad essere utilizzata dalla donna “corazzata” non è rivolta contro l’Altro per attaccarlo o ferirlo, essa è impiegata per non permettere a nessuno di  avvicinarsi  alla sua anima, alla parte più fragile di sé. La donna in questo modo vede l’Altro come una minaccia per il proprio equilibrio personale e professionale. Di solito, infatti, sono donne che hanno programmato la loro esistenza passo passo per difendersi dagli imprevisti o dai cambiamenti che non sono mai ben accetti. Sono spesso donne realizzate professionalmente e inclini ad un forte senso di autonomia; hanno sviluppato un Animus potente e in grado di svolgere le funzioni paterne di cui non hanno goduto. La dimensione maschile è decisamente preponderante e di fatti si presentano tratti fissi di personalità come la sobrietà, la fortezza e la decisione, l’efficienza, la concretezza e un forte senso di responsabilità. Di fondo sono donne ferite e intimamente minacciate dal sentirsi abbandonate o rifiutate, nascondono la loro debolezza e fragilità per non rivivere lo stato di abbandono e di delusione proprio della relazione con il padre. A lungo andare questo modo di essere provoca stanchezza, forme di esaurimento, dolori fisici in particolare alla schiena e alla cervicale: sono tutti sintomi di una “combattente” che non regge più le situazioni in cui si è impegnata. Qualora, poi, la corazza indossata fosse troppo pervasiva si possono avere anche dei blocchi della creatività, della spontaneità e vitalità, con l’aggiunta della perdita dell’aspetto giocoso della realtà che va ad appesantire ulteriormente il carico che la donna prova a sopportare. Questa tipologia di donna da un punto di vista psicologico arriva ad una scissione psicoemotiva abbastanza forte: all’esterno sembra una donna forte e infaticabile, all’interno invece si apre un mondo rigido e definito che intrappola la personalità dando luogo a fenomeni di angoscia e di depressione.
Il suo tentativo di compensazione di un rapporto con un padre debole e irresponsabile rischia di divenire una condanna a morte per l’intera personalità che si irrigidisce in uno schema protettivo e di continuo allontanamento dal proprio Sé.
La rigidità psicologica della donna corazza si può manifestare sia sottoforma di distacco e durezza nei modi e sia in una forma di attaccamento emotivo inaspettato e altrettanto rigido. Si può verificare che a seguito di un crollo psicofisico ella nutra un forte senso di dipendenza dall’Altro. Un tentativo disperato di recuperare tutto il tempo perduto e l’affettività negata. Si passa dalla guerriera ad una bambina in cerca di attenzioni e affetti, proprio come da bambine ricercavano le attenzioni paterne. Molto spesso i padri di queste donne sono soggetti che hanno avuto a loro volta dei problemi con il femminile: o svalutano la donna, divenendo così padri autoritari e schiaccianti, oppure soggiacciono al loro potere, assumendo così atteggiamenti passivi e deboli. Questi padri lasciano le figlie in un senso di profondo abbandono e inconsciamente aprono anche la strada al desiderio di morte e di autodistruzione.
Nel caso dei padri troppo deboli il rischio è anche la mancata testimonianza del senso del limite, dell’autorità, che carica la figlia di un peso eccessivo da portare ovvero quello di diventare precocemente padre di se stessa con la conseguente fissazione di regole e principi rigidi. Inoltre, le figlie di un padre debole sono a loro volta vittime di madri divoranti. Viceversa, un padre eccessivamente forte ed autoritario può dar vita nella figlia ad un Io ansioso, con profondo senso di vergogna e di colpa, con un ideale nevrotico di successo e disciplina.
 La femminilità, proprio a causa di una dominanza dell’Animus, viene vissuta come espressione di debolezza, di passività, la stessa che hanno visto nella figura paterna.
Alcune donne tendono, invece, a comportarsi sempre da figlie, sempre ubbidienti e pronte a gratificare il proprio padre in cambio del suo amore. Questa relazione ovviamente chiede alla figlia una continua rinuncia alla sua personalità e alla sua energia vitale. Il senso del dovere e dell’ubbidienza celano la tendenza della figlia a conformarsi al modello che il padre le sta proponendo. Crescendo la donna tenderà ad assumere un modello di comportamento volto a rispondere ai bisogni altrui. Non riuscirà a scorgere le proiezioni dell’Altro su di sé ed inevitabilmente si ritrova ad interpretare i ruoli che l’Altro le chiede. Ovviamente è una situazione sfiancante e avvilente e alla lunga porta ad un senso di profonda stanchezza e in molti casi di mancanza di autostima. Se la figlia corazzata si muove verso l’indipendenza e la concretezza, la donna “eternamente figlia”, al contrario, crea una visione fantastica e deresponsabilizzata della propria vita e della realtà in generale. È spesso fiacca e demotivata, manca di disciplina, coraggio e spinta al fare. Il suo Animus è sadico e rinuncia ad esprimersi, evita, cioè, le parti che l’Altro non approverebbe. L’aspetto positivo di questo Animus è l’essere malleabili e capaci di adattamento di fronte alle difficoltà e ai cambiamenti della vita. Tuttavia, alcune figlie dall’Animus soffocato interpretano il ruolo di “martiri”. Intraprendono sacrifici inutili e talvolta eccessivi pur di compiacere l’Altro nascondendo, in realtà, il desiderio di far sentire l’altra persona in colpa e quindi innescare il doppio legame della reciproca dipendenza. Il loro sacrificio è spesso apparente a livello psicologico, non è mosso da urgenze e necessità reali, ma dal desiderio narcisistico e infantile di muovere l’Altro a compassione o peggio a creare un senso di inadeguatezza nell’Altro. È come se nella loro psiche si fosse incisa la frase “Vedi cosa faccio per te? Per tutto questo tu mi devi amare!”.
Un Animus danneggiato al punto tale da far diventare la donna una martire di se stessa può essere riabilitato nel momento in cui la donna prende coscienza che l’amore che desidera deve essere in primis amore per se stessa. Deve imparare a rispettarsi per poter ricevere altrettanto dalle persone che la circondano e a dare il giusto peso alle azioni da compiere.
È necessario per tutte le donne che non hanno avuto la possibilità di vivere un rapporto con il padre soddisfacente comprendere ed imparare che solo l’equilibrio delle parti,  Anima ed Animus, sono la vera chiave del successo personale. Bisogna entrare sia in contatto con la forza che è dentro di sé e sia con la propria debolezza, perché l’azione equilibrata nasce dalla sintesi personale tra possibilità e necessità e di conseguenza tra le diverse dimensioni del nostro essere.
5.     M.Recalcati: Il ruolo del padre 

Tra le domande più importanti nella storia psicoanalitica vi sono di sicuro chi è e cos’è un padre. A partire da queste due questioni Freud ha analizzato e utilizzato la storia di Edipo, tratta da Sofocle, per individuare la funzione paterna più rilevante, ovvero quella di proibire ciò che non va fatto, dare una legge di comportamento. Freud ha messo l’accento sul ruolo del padre come colui che sa far valere la legge dell’interdizione dell’incesto, facilitando così la separazione psicologica del figlio dalle sue origini. Anche Lacan ha posto l’accento sulla figura paterna e in particolare sul suo ruolo “normativo”. Tuttavia, rispetto a Freud, Lacan ha fatto emergere il carattere traumatico di questa operazione: il padre esegue un “taglio del cordone ombelicale” del figlio dal rapporto materno, dirigendolo verso l’assunzione individuale del proprio desiderio.
È chiaro che esiste un’equivalenza tra padre e Legge, ed è ancora più drammatico constatare come questa sia in declino ai nostri giorni. Il tramonto della figura del padre è uno dei temi centrali della riflessione psicoanalitica attuale. Freud stesso, infatti, era consapevole della piega che stavano prendendo i rapporti padre-figlio e per questo parlava di padri “castrati”, “evanescenti”, lontani dal modello del pater familias.
Agli occhi del figlio il padre è una figura ambivalente: il padre ideale da un lato, il padre reale e umanizzato dall’altro. La scissione dell’immagine paterna è quella che si verifica normalmente nell’esperienza di ciascun figlio, il problema sussiste quando il figlio vuole ostinatamente conservare l’immagine idealizzata, l’imago paterna nevrotica,  per assicurare la sopravvivenza della nevrosi stessa. La nevrosi costruisce e tenta di mantenere in piedi realtà distorte e idealizzate, come in questo caso, di un padre eroico e il lavoro terapeutico consiste proprio in una rimozione della nevrosi affinché il figlio colga la realtà nella sua pienezza e concretezza.
Come scrive Recalcati in Cosa resta del padre?, saggio del 2011, “la famiglia contemporanea ci appare senza centro di gravità, stratificata, disordinata, priva di nucleo e incline ad assumere le organizzazioni più diverse”. È diventato antiquato e “fuori moda” il modello della famiglia composto da madre, padre e figlio che formano un legame istituito per tutta la vita. Anche la famiglia, come tutti i frutti culturali di una società, è destinata a cambiare e modificarsi seguendo i tempi, ma il compito della famiglia deve rimanere saldo in quanto essa è chiamata ad accogliere una nuova vita ed a umanizzarla. Le forme di aggregazione, siano esse di massa o individuali, sono frutto di un modello culturale e per tanto non rispondono a bisogni primari naturali ma, come già detto, a bisogni culturali. Da ciò deriva che la paternità non è data dallo spermatozoo, non è un legame di sangue, bensì è un atto simbolico che assume tutte le conseguenze dell’ evento biologico della nascita. Ecco perché la famiglia accoglie una vita e la umanizza, nel senso che abbraccia l’impegno reale e simbolico della nuova vita portandolo al grado di umanità e questo riconoscimento della vita come umana resta il punto fondamentale del legame familiare. L’umanizzazione della vita passa necessariamente attraverso l’atto simbolico della nominazione che sancisce la filiazione. Questo significa anche che l’amore non è mai generico e indistinto, bensì legato ad una vita particolare che risponde ad un suo nome e che per tanto viene riconosciuto come Altro. Di qui derivano le riflessioni psicoanalitiche sull’importanza del nome del nascituro, poiché in esso convergono le attese, le speranze e i sogni che nutrono il desiderio dell’Altro da parte dei genitori.
La famiglia, dunque, per essere riconosciuta tale deve deve creare e mantenere un’alleanza simbolica tra i membri. Questa alleanza si manifesta nel vivere assieme, nell’attingere ad una radice comune condivisa e nel nutrire il desiderio del nuovo venuto con il proprio. Infatti, gli studi psicoanalitici dimostrano come una vita non voluta, non inserita nel nucleo familiare è una vita non riconosciuta in quanto tale ed è destinata alla rovina.
Il bisogno di appartenenza caratterizza ogni essere umano, questo bisogno è controbilanciato dalla spinta all’erranza. Entrambi lavorano alla definizione della soggettività umana: identificazione e desiderio di mettere radici da un lato, e bisogno di fare nuove esperienze e realizzare così la propria differenza, dall’altro. Il legame familiare dovrebbe rendere possibile le due spinte: accoglienza, inserimento e allontanamento. La famiglia, dunque non solo rende possibile il senso di appartenenza, ma è anche in grado di sopportare la separazione e la perdita in quanto necessarie alla piena formazione del Sé dei figli.
La spinta alla differenziazione, la necessità di trovare e conoscere il proprio desiderio è la forza che allontana dal nucleo familiare. La malattia di ogni legame, e di quello familiare in particolare, è l’impedimento di questo naturale movimento. Quando viene operata un’interruzione nel flusso naturale della crescita individuale del soggetto, mediante una dominanza del principio di appartenenza, si impedisce la legittima differenzazione del figlio.
È chiaro che le due spinte, avvicinamento e allontanamento, provochino un conflitto. Freud, infatti, era consapevole che l’idealizzazione del padre, nel complesso edipico, chiami a Sé anche una proporzionale componente aggressiva rivolta verso il proprio genitore. Ciò significa che vi sarà necessariamente un conflitto tra le parti, ma se questo conflitto avviene in un contesto familiare sano non si avranno forme di violenza e la differenzazione per tanto verrà riconosciuta ed accettata. Anzi, si può avere anche un fenomeno di trasformazione e di crescita delle parti coinvolte.  Quando, invece, il processo di differenzazione viene ostacolato, non viene riconosciuto, anzi, si cerca di bloccarlo, allora si manifestano eventi di violenza, di distruzione e conseguente rottura dei legami.
Il conflitto presuppone il riconoscimento dell’Altro nella sua alterità: il legame sociale istituito non è patologico e, per tanto, accoglie l’evento come normale processo di crescita e maturazione del rapporto di filiazione. Se, invece, l’allontanamento è vissuto come tradimento, come qualcosa di innaturale da estrarre, ne deriveranno manifestazioni, anche cruente, di violenza. Ecco perché il legame familiare deve consentire l’oscillazione tra appartenenza ed erranza, e di conseguenza deve consentire la conflittualità. Il conflitto è il simbolo della canalizzazione della forza aggressiva dell’alterità. Bisogna saper nutrire correttamente tanto la dimensione dell’identificazione con il nucleo di appartenenza, quanto quella di alterità, affinché ciò sia possibile è necessario che le generazioni coinvolte, quelle dei padri e dei figli, mantengano le proprie identità e distanze, evitando così quel processo di omogeneizzazione che oggi fa da padrone. Scrive, infatti, Recalcati che oggi si assiste a bambini che sono equivalenti dei genitori, di madri equivalenti alle figlie e i padri ai figli. La famiglia dovrebbe invece prevedere la “sottomissione” del figlio all’organizzazione gerarchica e alle leggi del suo funzionamento. Oggi invece si assiste alla subordinazione delle leggi familiari alle esigenze egoistiche e narcisistiche del dio-bambino. Esempi di quanto detto si possono riconoscere nei casi di bambini iperattivi che non hanno mai incontrato il divieto della Legge familiare; ancora, si possono vedere i risultati dell’omogeneizzazione familiare nei casi sempre più diffusi di anoressie, bulimie, tossicodipendenze, depressioni e attacchi d’ansia. Il soggetto patologico, anziché incontrarsi e partecipare allo scambio simbolico con l’Altro, si rifugia nel godimento pulsionale ripiegato su se stesso e per questo assolutamente sterile.

Nella famiglia contemporanea vengono meno le differenze di posizione, di responsabilità, tutto ciò  che darebbe il “senso del limite”. Al suo posto si è affacciato il vuoto del dialogo che nasconde semplicemente la mancanza di rispetto, la mancanza di responsabilità da parte dei genitori e l’appiattimento delle differenze: l’adulto deve sopportare il peso dell’interdizione che pone. Utilizzando il titolo di un manuale per bambini, è necessario riabilitare i “no” che aiutano a crescere. In quest’epoca di evaporazione del padre, e del significato simbolico che questa figura ha, rimane forte l’esigenza di riconoscere l’Altro ed essere riconosciuti come Altro. Bisogna riconoscer il debito simbolico che si ha verso l’Altro, perché la nostra esistenza dipende sempre da ciò che è avvenuto nell’Altro. Affinché ci sia differenzazione e soggettivizzazione della propria libertà di essere bisogna riconoscere lo sfondo da cui questa libertà si è costituita. Se lo sfondo non è riconosciuto ed assunto come limite, allora la libertà si riduce ad essere semplicemente assenza di vincoli.
Il problema che si apre oggi, alla luce di quanto detto, è come riuscire a preservare la funzione educativa propria della famiglia in un momento in cui questa funzione sta venendo meno. Questo problema ha un duplice aspetto, perché da un lato non si sa come assumere la responsabilità dell’interdizione e dall’altro come passare la propria testimonianza alle nuove generazioni. Le generazioni attuali non vivono in alcun modo il conflitto generazionale, poiché a loro viene data la più piena e sciocca libertà di appagare sempre e comunque il proprio desiderio di godimento del “qui ed ora”. Oggi il vero disagio è testimoniato dall’incapacità dei giovani di accedere al vero desiderio, quello che nasce dall’accettazione dell’interdizione. Ed è qui che si esplicherebbe il doppio compito del padre, nel saper dire “No!” e, al tempo stesso, nel saper incarnare il desiderio vitale di realizzazione.
Invece quello che sta accadendo è che i genitori di oggi si trovano di fronte a due angosce: sentirsi amati dai figli e la paura del fallimento proprio e dei figli.
La prima angoscia, quella di sentirsi amati dai propri figli, ha ribaltato completamente la dialettica del riconoscimento. Ci troviamo sempre più di fronte a figli che dettano le regole e genitori che cercano di essere riconosciuti tali attraverso la tecnica del continuo assenso. Ciò spiegherebbe la grande responsabilità data alla scuola e alle istituzioni di educare, di formare e di umanizzare i giovani d’oggi (compiti in passato sempre svolti dalle famiglie). Il genitore deresponsabilizzato del suo dovere è il genitore che propone il “dialogo”, ma è un dialogo apparente e senza sostanza. Manca l’esperienza del limite sia per il genitore che per il figlio.
Per quanto riguarda la paura dell’insuccesso e l’ansia da prestazione , che come è noto negli studi psicoanalitici sono legate alle attese narcisistiche dei genitori stessi, si creano una serie di meccanismi perversi che bloccano qualunque possibilità per i figli di fare esperienza, di cadere ed imparare a rialzarsi. I genitori di oggi sono terrorizzati dall’idea che l’imperfezione possa perturbare la vita del loro figlio-ideale. In realtà dietro tutto questo c’è il desiderio narcisistico del genitore che il figlio diventi o come lui o come lui avrebbe voluto essere. Questo desiderio muove l’azione educativa verso l’occultazione di ogni imperfezione: il motto dominante è dare tutte le possibilità di riuscita nella vita, ma questo genera un movimento contrario alla “riuscita nella vita”, esso genera l’incapacità di sopportare qualsiasi rifiuto e ostacolo. Il successo dell’Io viene identificato con la possibilità di essere soddisfatti nella vita, ma purtroppo è una mera illusione.
Infatti, la psicoanalisi non elogia la prestazione. Infatti il lavoro dell’analista è antagonista alle illusioni dell’Io e ai suoi sogni di gloria, un buon psicoanalista rimuove la corteccia costruita dall’Io (quella corteccia fatta di sogni di successo e di voli pindarici) affinché il soggetto impari a conoscere realmente se stesso e si confronti con il suo intimo desiderio.
Se volessimo usare le parole di Recalcati si potrebbe dire che la psicoanalisi elogia il fallimento. Il fallimento è una caduta necessaria alla persona per tastare le sue reali potenzialità e possibilità e per verificare quanto le sue idee possano avere presa sulla realtà. Ecco perché il tempo del fallimento non può che essere quello della giovinezza. L’errore, l’indecisione, la sconfitta, il ripensamento sono tutti necessari alla formazione autentica. I giovani sanno perdersi come nessun altro ed è questo il loro più prezioso bene, non ha senso impacchettare la loro vita come una scalata al successo, non è quello il compito del genitore. Il genitore deve essere presente nell’erranza del figlio per mantenere vivo il senso di appartenenza, e per fare ciò è necessario sopportare l’angoscia di questo andirivieni. Solo al termine di questo processo, lungo e contorto, sarà possibile vedere sorgere in sé un desiderio puro e pienamente conforme alla propria persona.

6.    M.Recalcati: “Il complesso di Telemaco”

Come nel “complesso di Telemaco”, tratto dall’Odissea, il disagio della giovinezza viene letto come il risultato della relazione tra genitori e figli così oggi per leggere il rapporto tra generazioni, parafrasando il titolo di un articolo di Eugenio Scalfari, bisogna riconoscere che il padre manca alla nostra società. È un dato preoccupante come la figura del padre, nella sua accezione psicologica di “autorità”, sia oggi tramontata.
La funzione educativa del padre si esplica proprio nel rapporto con la sua prole, eppure oggi assistiamo ad un suo declino: al posto del padre che guida, abbiamo una schiera sempre più nutrita, di padri che sono divenuti i “compagni di giochi dei loro figli”. Questo cambiamento, nonostante tutto, si accompagna ad una crescente domanda del padre. Ma questa crisi non vuole essere e non deve essere un momento per riportare in vita il “mito del padre-padrone”, il suo tempo è irreversibilmente finito, esaurito e scaduto. Alla luce di questa trasformazione dei rapporti, tra padri e figli, bisogna chiedersi cosa sia rimasto del padre nel tempo della sua dissoluzione.
Recalcati, in un suo saggio del 2013, riprende la storia di Telemaco come punto-chiave di interpretazione del rapporto padre-figlio. Questo complesso è il rovesciamento di quello di Edipo: se Edipo viveva il proprio padre come rivale, tanto da arrivare ad ucciderlo, nel complesso di Telemaco, invece, il padre è la figura “attesa”. Egli, infatti, attende il padre che ritorni affinché con la sua autorità possa riportare la legge laddove domina il caos dei Proci.
Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo e cerca il padre come figura con cui confrontarsi. Il padre diviene così l’invocazione della Legge, quella legge che porterà di nuovo la giustizia ad Itaca. Proprio dietro questa attesa c’è un senso di malinconia e nostalgia. Nietzsche aveva già intuito che la domanda di padre nascondesse sempre l’insidia di un’attesa infinita di qualcosa che non arriverà mai. Questo coltivare la speranza e l’augurio del ritorno di un padre-glorioso e “salvatore” è un rischio sempre in agguato, soprattutto laddove mancano punti fermi e certezze si tende a spostare al di fuori di sé qualunque attività di cambiamento. Come sostiene Recalcati, noi siamo in un’epoca di tramonto irreversibile del padre e bisogna comprendere come conciliare questo dato di fatto con la crescente attesa delle nuove generazioni che un “padre” venga e indichi una nuova via.
Le nuove generazioni sono impegnate nel realizzare un movimento di riconquista del proprio avvenire, della propria eredità smantellata. Come Telemaco essi attendono, ma cosa arriva dal mare dell’attesa? Per Telemaco dal mare è giunto un uomo, suo padre, nelle spoglie di un migrante senza patria, al suo seguito non vi erano né flotte vincitrici di un eroe né ricchezze e denari. E per le generazioni di oggi chi o cosa giungerà? Questo non ci è dato sapere, ma possiamo invece valutare meglio e considerare cosa i “nostri figli” si aspettano: l’attesa è verso dei padri-testimoni. Ecco dunque una parola chiave nel rapporto padre-figlio e in generale nel rapporto con la figura del “padre”: una “testimonianza”. Oggi non si cercano né modelli ideali, né dogmi, né eroi leggendari e né tampoco autorità repressive e disciplinanti. Il padre invocato, con tutti i suoi significati archetipici, non può essere il padre che ha l’ultima parola sulla vita dei propri figli, questa figura appartiene ad uno stato evolutivo superato dall’uomo moderno; il padre che si cerca è un padre “umanizzato”, capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria, che la vita può avere un senso. Si sta attendendo oltre al padre anche l’eredità paterna. La condizione dei giovani-Telemaco di oggi, infatti, è quella di essere totalmente diseredati: assenza di un futuro, caduta del desiderio per la vita, precarietà dell’esistenza spirituale e materiale. Le generazioni contemporanee vivono appieno la “notte dei Proci”; stanno ereditando, se di eredità si può parlare, un mondo morto, una terra sfiancata, un’economia impazzita e la mancanza di speranza.
In questa situazione così delirante e deludente quale possibilità può essere proposta nei rapporti tra padri e figli?
Leggere la situazione attuale e pensare a Telemaco come elemento di paragone significa individuare l’espressione più alta e giusta dell’Anti-Edipo: egli non è né vittima del padre, né si schiera ottusamente contro il padre. Telemaco è l’icona del figlio che attende che “qualcuno” si comporti da padre; è colui che abbracciando il suo ruolo di figlio accede alla dimensione di erede. Recalcati, infatti, scrive che l’atto di ereditare non si compie come un travaso di beni o di geni da una generazione all’altra, né è un diritto sancito per natura. L’eredità è un movimento singolare, privo di garanzia, che ci riporta alla nostra matrice inconscia. È una ripresa in avanti di ciò che siamo sempre stati, per ereditare non significa colmare il buco aperto dall’assenza strutturale del Padre, ma ricevere il dono e il desiderio della Legge della vita. Questo infatti è l’unico dono che possa riscattare la vita dalla “notte dei Proci” (miraggio di una libertà ridotta a pura volontà di godimento).
 Da Edipo a Telemaco: quattro figure di figlio 
Approfondendo il discorso sulla figura del padre è inevitabile indagare quella del figlio, e infatti individuiamo quattro tipologie di figli: il figlio Edipo, il figlio Anti-Edipo, il figlio-Narciso e il Figlio-Telemaco. I primi due sono già noti negli studi psicoanalitici in quanto protagonisti della teoria freudiana. Il figlio-Narciso è, invece, una figura nuova nel panorama psicologico e psicoanalitico, per quanto secondo la teoria di Recalcati sia una figura già tramontata: questa figura sintetizza il periodo del cosiddetto “riflusso” che ha caratterizzato gli ultimi decenni prima della grande crisi economica. Una crisi che si è abbattuta su tutti i fronti e che ha portato poi alla nascita del Figlio-Telemaco.
Con il figlio-Edipo si ha avuto uno scontro tra generazioni, tra due concezioni diverse del mondo, con il Figlio-Narciso si ha avuto un’assimilazione indistinta dei genitori con i figli e di qui la totale confusione tra generazioni con un conseguente culto della felicità individuale privo di legami con l’Altro. L’arrivo di Telemaco mostra il simbolo più “giusto” di colui che è l’erede: consapevole del suo ruolo di figlio è in grado di esserlo senza rinunciare al proprio desiderio di realizzazione.
 La confusione delle generazioni e le conseguenze
I rapporti scricchiolanti con le figure parentali, il processo di omogeneizzazione delle generazioni, il culto di un’educazione senza limiti e responsabilità stanno creando non pochi disagi e problemi alle nuove generazioni. Queste dimostrano tutta la loro incapacità e difficoltà nel vivere serenamente il mondo che li circonda già a partire dall’adolescenza. Allora, quale Legge arriverà per loro ad indicargli la via? Vediamo assieme alcune delle problematiche più rilevanti oggi nelle relazioni umane che sono frutto di rapporti parentali sciolti da vincoli di responsabilità.
Tra i temi che Recalcati ha trattato quell che più mi ha interessato è legato all'uso degli oggetti tecnologici tra i giovani: 
Uno degli aspetti più sconcertanti negli studi psicoanalitici dei nostri tempi è legato alla sindrome depressiva dilagante. La depressione sta investendo sempre di più i giovani e gli adolescenti. Lo si può vedere nella loro mancanza di interesse, nella loro letargia, nella mancanza di slancio e di desiderio per la vita. L’adolescenza è la fase in cui si manifesta la spinta ad avere un desiderio proprio che non si conforma a quello dell’Altro; ma oggi questo desiderio è soffocato dalla presenza di telefoni cellulari e computer. L’oggetto tecnologico ha creato un Altro virtuale che sostituisce l’impatto con l’Altro reale. L’oggetto tecnologico non funge da simbolo, ovvero non segnala il vuoto, bensì, come un medicinale, riempie e anestetizza il vuoto. Per desiderare qualcosa bisogna sentirne la mancanza, quest’ultima alimenta il desiderio della ricerca della cosa mancante, ma nel momento in cui uno strumento tecnologico dà l’impressione di essere ovunque, di avere amici e amori on-line. 

 La nostra società ripudia il vuoto, ripudia il silenzio sia esteriore che interiore e per questo offre mille modi per riempirsi. Il riempimento però è sempre quello di un vuoto che cresce ancora di più.

Bibliografia:
Morganti, Monica, Figlie di padri scomodi. Comprendere il proprio legame col padre per vivere amori felici, FrancoAngeli, Milano, 2009
Recalcati, Massimo, Cosa resta del padre?: la paternità nell'epoca ipermoderna. R. Cortina, 2011
Recalcati, Massimo, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano, 2013
     Yablonsky, L. Padri e figli: il più arduo e stimolante di tutti i rapporti. Astrolabio, Roma 1988.
     Carotenuto, A., Lo sviluppo del bambino nel pensiero di Erich Neumann