sabato 8 ottobre 2016

L'UOMO CHE PIANTAVA GLI ALBERI

Il poeta deve essere un professore di speranza



L’autunno ha iniziato ad allungare le sue ombre colorate in città. Le foglie degli alberi si tingono di giallo, di rosso, o del colore “secco”, tipico di quelle foglie che stanno per lasciarsi cadere. In un momento come questo, quando la natura inizia il suo letargo stagionale, mi è sembrato adatto parlare del “L’uomo che piantava gli alberi”, un libro, anzi un libricino (per le sue modeste dimensioni più che tascabili). L’ho trovato per caso in una bancarella di libri usati, due o tre estati fa. Mi aveva incuriosita il titolo e non ho esitato a darci un’occhiata. Ebbene, il titolo con molta semplicità rivela al lettore ciò che racconta: la storia di un uomo che piantava alberi.

L’autore del libro è Jean Giono, scrittore francese-provenzale di origini italiane. Il breve racconto, commissionato da un mensile americano, è stato scritto in una sola notte, quella del 24 febbraio 1953. Il racconto, che spero leggerete, sembra assolutamente vero. Narra dell’incontro dello scrittore con un pastore, Elzéard Bouffier, uomo taciturno che lavorava con meticolosità al progetto di rimboschire l’arida vallata in cui viveva. Questa mia personale sensazione di veridicità, indagando un po', è stata provata da molti altri lettori, compresi gli stessi redattori del mensile che, però, dopo aver scoperto che il racconto era frutto della fantasia dell’autore e non una vera corrispondenza giornalistica, lo rifiutarono. Fu così che venne pubblicato da Vogue.

La bellezza del racconto è data da una storia semplice e poetica. Non vi sono eccessi, emozioni forti: battaglie, lotte. No, c’è solo la pacata fermezza di un uomo che realizza il suo progetto. Il ritmo è piano, rilassato, così come la vita dell’anziano pastore. La storia dell’Occidente, con le sua Guerra, la sua agitazione, fa da sfondo e non perturba assolutamente la sua volontà.

Al termine della lettura, sono rimasta con una dolce sensazione di speranza e di fiducia. L’uomo viene presentato nelle sua dimensione più alta e, oserei dire, naturale: vivere con semplicità di spirito. Non è un caso che in quarta di copertina è scritto:

Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole.
Poco dopo la fortuita scoperta di questo libro, mentre cercavo su YouTube un bel film d'animazione, trovai un film dal titolo assai curioso, L'uomo che piantava gli alberi
Non sempre le trasposizioni cinematografiche rendono giustizia alla bellezza di un testo narrativo. Ma questa volta il mio vecchio pregiudizio ha dovuto ricredersi: furono circa trenta minuti, trenta minuti di pace e di speranza. 



Il film d'animazione , L'homme qui plantait des arbres, di Frédéric Back, regista e disegnatore, venne realizzato nel 1987, riprendendo il testo dell'omonimo libro scritto da Jean Giono. I disegni che accompagnano la lettura integrale del testo si armonizzano a questo donandogli movimento e leggerezza: i tratti leggeri, i colori tenui, le forme che si dissolvono e ricompongono in un continuo intreccio. Come ho letto su un altro blog, sembra che il regista abbia reso il testo di Giono visibile.

Con l'augurio che questo breve racconto faccia germogliare nuove idee e, perché no, nuovi alberi vi auguro buona lettura e buona visione.






domenica 2 ottobre 2016

"CERTE COSE SUCCEDONO SOLO NEL DIALETTO" diceva Raffaello Baldini



Durante gli anni universitari ho riscoperto il piacere di parlare nel mio dialetto: a casa, per strada, nei negozi mi divertivo con la mia amica di allora a "metter su" lunghe conversazioni o semplici e divertenti commenti in lingua. Mi sembrava un buon modo per non farmi comprendere e poter chiacchierare apertamente in una terra straniera (in realtà, scoprii che avevo molti fratelli e sorelle di lingua anche a più di 500 km di distanza da casa). Con il tempo, ambientandomi e sentendomi più a casa, continuai l'uso del dialetto, ma più per praticità: contenuti precisi e istantanei! Questa mia riscoperta linguistica mi ha portata a indagare i dialetti altrui, soprattutto quello della città in cui vivevo. Sebbene poche siano state le persone del luogo che ho conosciuto, ho sempre domandato qualche traduzione di parola o frase nel loro dialetto. E che magre scoperte!!! I miei coetanei o poco più non lo conoscevano, e spesso mi dicevano "il dialetto a casa lo parlavano i miei nonni. Lo capisco, ma non lo so parlare!". . .

Poi così, per caso ho conosciuto un'anziana signora, una vispa gattara, una bolognese doc, la Signora Lea! Che divertimento sentirla parlare in dialetto, soprattutto quando era a casa con il marito: battute, fugaci litigi da una stanza all'altra, commenti, in questa lingua che sembra cantata! Non capivo molto e spesso le facevo ripetere intere frasi per imparare quei suoni così lontani dai miei.

Non ho memorizzato granché di quelle lezioni, ma è rimasto quel fascino, quel piacere uditivo, che quest'oggi si è risvegliato sentendo recitare una poesia di Raffaello Baldini. Poeta romagnolo di Santarcangelo di Romagna. Lui, assieme a Tonino Guerra e Nino Pedretti, sono stati i più grandi poeti dialettali del secondo Novecento.

C'è da dire che in Emilia Romagna esiste una ben definita e difesa distinzione tra romagnoli ed emiliani: si distinguono per dialetti, cucina e modi di essere. Per cui è una cosa seria! Questo è stato un concetto fondamentale che, nelle mie ricerche linguistiche, mi è stato ribadito.

Eppure, per me che non conosco i vari dialetti della regione e che non ho interiorizzato detta distinzione, trovo una musicalità condivisa. Come un sottofondo comune pur nelle diversità.

Ho sbirciato il volume Intercity di Baldini edito da Einaudi, ed ho trovato delle poesie davvero belle. Un po' per provare e un po' per ridere ho provato a leggerle ad alta voce. Ci capivo ben poco, ma mi è piaciuto l'ilare esperimento. Per fortuna che il testo presenta la traduzione in lingua italiana curata dallo stesso autore, e così i suoni disarticolati hanno preso senso.

Una poesia della raccolta che mi ha colpita e che ho voluto riportare è In dèu. Buona lettura e buon ascolto!

In Dèu

a l dégh sémpra ènca mé, in déu l’è e’ masum,
par stè insén, s’ t vu stè insén, in dis, in véint,
cmè t fè a stè insén?
la zénta invici u i pis d’ ès una masa,
“A sérmi una trentéina,
senza cuntè i burdéll”, e i è cuntént,
“A stèmm insén”,
ch’ u n vò di gnént, t staré tachèd, no insén,
piò ch’a séi e pézz l’è,
stè insén l’ è un’ èlta roba, ta n t n’ incórz?
no, i n s n’ incórz,
lòu, ès un póch l’è cmè no èsi, lòu
i à bsògn da ès in tint, in zént, in mélla,
in dismélla, in zentmélla,
che mè, ai so stè ‘nca mè,
par San Martéin, ma la festa dla Piva,
magné, bai, t chènt, t réid, t rògg,
parchè t chin rògg, l’è tó un rugiadézz,
se no ta n t sint, e par lòu l’è alegréa,
ch’ l’era un caséin, e mè alè zétt te mèz,
‘ s ‘ ut ch’ a t dégga, u m pareva, mo dabón,
d’ès da par mè,
invici in deu, tè e li, la sàira, ad chèsa,
a un zért mumént t smórt la televisiòun,
t ciacàr un po’, li la va ‘dlà, la tòurna,
sorpresa! du gelè,
t vu crema o cecolèta?
pu d’ogni tènt u s scapa, u s va ti pòst,
a magnè fura, e’ cino,
e’ cino l’è una roba,
cmè da burdéll al fòli,
u s sta lè tòtt disdài, zétt, incantèd,
s’ u t vén dal vólti da dí quèl, di dri
u i è sempra éun che ragna: ssst! silenzio!
pu Fine, u s zènd al luci,
l’è cmé svigés, t stè so. e e’ basta un gnént,
che ta i tèn e’ capòt, che la s l’ inféila,
ch’ ta la strènz, no una masa, sno sintéila.

In Due

Lo dico sempre anch’io, in due è il massimo,
per stare insieme, se vuoi stare insieme, in dieci, in venti,
come fai a stare insieme?
la gente invece gli piace d’essere in tanti,
“Eravamo una trentina,
senza contare i bambini” e sono contenti,
“Stiamo insieme”,
che non vuol dir niente, starai attaccato, non insieme,
più siete e peggio è,
stare insieme è un’altra cosa, non te n’accorgi?
no, non se n’accorgono,
per loro, essere in pochi è come non esserci, loro
hanno bisogno d’essere in molti, in cento, in mille,
in diecimila, in centomila,
che io, ci sono stato anch’io,
per San Martino, alla festa della Pieve,
mangiare, bere, canti, ridi, urli,
perché devi urlare, è tutto un urlio,
se no non ti senti, e per loro è allegria,
che era un casino, e io lì zitto in mezzo,
cosa vuoi che ti dica, mi pareva, ma davvero,
d’essere solo,
invece in due, tu e lei, la sera, in casa,
a un certo momento spegni la televisione,
chiacchieri un po’, lei va di là, torna,
sorpresa! due gelati,
vuoi crema o cioccolato?
poi ogni tanto si esce, si va nei posti,
a mangiar fuori, al cinema,
il cinema è una roba,
come da bambini le favole,
stanno tutti seduti, zitti, incantanti,
se ti viene delle volte da dir qualcosa,
dietro c’è sempre uno che protesta: ssst! silenzio!
poi Fine, si accendono le luci,
è come svegliarsi,ti alzi, e basta un niente,
che le tieni il cappotto, che se l’infila,
che la stringi, non molto, solo sentirla.

Raffaello Baldini, Intercity, Einaudi, 2003

http://www.einaudi.it/libri/libro/raffaello-baldini/intercity/978880616635