martedì 6 agosto 2019

FRANKENSTEIN EDUCATORE


Prepararsi ad un concorso non è mai facile: per quanto possa piacere la destinazione futura in caso di riuscita, nel mentre mesi e mesi di studio aspettano il candidato, mesi che faranno ancorare la fantasia e la speranza saladamente a terra. Infatti, negli scorsi mesi di studio, da un po' conclusi, nel marasma di nozioni, teorie, nomi, anni e definizioni, un libricino mi ha aiutata a non perdermi e a dare un senso un po' più nobile al mio sforzo. Come spesso succede il senso delle azioni che compiamo è strettamente legato, nella nostra società, ad affermarci e a ricoprire un ruolo. 
Il "ruolo"... Parola dai retroscena oscuri .. 
Bene, in questa affannosa ricerca di "un ruolo", questo libro mi ha indicato che non ci sarà alcun "ruolo" se non c'è una profonda consapevolezza di quanto si andrà a fare. Educare, insegnare non sono questioni di ruolo - o meglio non dovrebbero esserlo - né questioni di punteggi, né di graduatorie raccogli punti, sono invece inclinazioni dello spirito. 
Insegnare è un'arte, è l'arte di saper tradurre un certo oggetto ai ragazzi. Paola Mastrocca, La scuola raccontata al mio cane, p.132
Educare poi, è l'abilità che soggiace all'arte dell'insgenare. Dietro ogni bravo o brava insegnante c'è anche un bravo educatore o una brava educatrice. Strano, invece oggi, che per scegliere un buon insegnante si ricorra a test e prove di carattere mnemonico. Queste prove diranno per davvero chi può o no svolgere tale delicato compito? Non si rischia di scegliere solo dei dottor Frankestein, aspiranti al ruolo, interessati alle graduatorie della società scolastica? Io credo di sì: discorsi, sussurri, riflessioni e calcoli ascoltati non avevano che un ritornello: "così poi divento di ruolo"... 
[...] non si parla più veramente, si "scambiano dei servizi": "io ti riconsegno il mio compito di francese; ho fatto quello che hai chiesto, con un'introduzione e una conclusione e senza errori di ortografia: allora mi aspetto il mio voto e siamo pari. Non mi chiedere di interessarmi anche del testo che mi hai dato da studiare. [...] Si fanno degli scambi e nient'altro. Meirieu, 2007, p.33
La scuola è sempre più un semplice servizio e sempre meno un'istituzione. La scuola si sta trasformando in un gigantesco supermercato in cui domanda ed offerta si relazionano in funzione dei bisogni del "cliente", lo studente e la sua famiglia. Il PTOF non è poi questo, il depliant dei prodotti che la scuola offrirà? Peccato che sul depliant non si faccia mai riferimento alla preparazione, all'adeguatezza, alla passione dei suoi docenti, alla loro reale capacità di insegnare e di educare.
Ma oggi educare ed insegnare hanno il sapore delle parole desuete, antiche, della nonna.  

Per fortuna che ci sono i libri, tanti e diversi! Alle volte si dimostrano fonti di mere idee senza concretezza ma tanto utili a spingere se stessi a credere nell'utopia - motore di ogni cambiamento - altre volte si comportano come saggi amici silenziosi che ti incoraggiano nella direzione intrapresa e nel primo intuito avuto.



Il libro Frankenstein educatore di Philippe Meirieu è stato un "compagno" durante la preparazione al concorso, suggerito da una donna molto in gamba che durante una lezione lo ha consigliato a quanti e quante volessero allargare i propri confini oltre il triste orizzonte del "ruolo".

Il titolo del saggio è un chiaro riferimento al romanzo letto e apprezzato da duecento anni dalla pubblicazione, il romanzo "Frankenstein o il Prometeo moderno" di Mary Shelley. Nato quasi per gioco - un racconto dell'orrore, un passatempo serale - durante un soggiorno estivo a Ginevra nel 1818,  è diventato di lì a breve il racconto di un vero e proprio mito moderno. Il mito della creazione che oscilla tra umano e divino, in bilico tra vita e morte, tra religione e scienza, tra padre e figlio.

La scelta del mito di Frankenstein da parte di Meirieu è una provocazione contro le ricette per produrre cambiamenti efficaci ed efficenti negli educandi.  È un'occasione di riflessione sui miti e gli archetipi che sono a fondamenta del discorso educativo. 
L'educazione include spesso nei propri contenuti una sorta di progetto di chi educa su chi viene educato. La vita quanto l'identità sono trasmesse, non sono date da se medesimi. L'educazione, dunque, è il luogo della trasmissione, della traduzione. Un luogo che non è governato da leggi meccaniche del sapere, da tecniche, da modelli di apprendimento-insegnamento. 
Lo sforzo di uniformare i percorsi e gli esiti educativi tanto nelle scuole quanto nelle università sta creando scuole fabbriche di sapere i cui pochi architetti - o meglio ingegneri dell'istruzione - hanno la guida dell'istruzione, mentre a capomastri-insegnanti e a studenti-manovali-proiettati nel mondo del lavoro non spetta che eseguire. 

Ritorniamo a Meirieu e alla sua riflessione sull'educazione e sul suo profondo valore sociale.
Victor Frankenstein fa un uomo, lo costruisce e gli dà vita "ed è talmete spaventato dal suo atto, da cadere in uno stato di profondo abbattimento e da abbandonare a se stessa la creatura senza nome. Meirieu, 2007, p.14

Victor voleva fabbricare un uomo, superare i limiti della scienza, mettere alla prova le proprie abilità. Era animato da un gusto narcisistico e di potere, non di certo dall'intenzione di accogliere il nuovo nato e introdurlo nel mondo.
della diversità dei sentimenti che nel primo entusiasmo per il successo, mi spingevano ad andare avanti con irresistibile forza [...] una nuova specie mi avrebbe benedetto come suo creatore. Quanti esseri felici ed eccellenti mi sarebbero stati debitori dell'esistenza! Nessun padre avrebbe mai meritato così completamente la gratitudine dei suoi figli quanto io avrei meritato la loro. Shelley, 1978, p.84
Dunque Frankenstein è l'uomo alle prese con l'arrivo di un "altro", uno di quei bambini che un giorno si hanno "tra le braccia" e ben presto sulle spalle, senza sapere molto bene quello che se ne è fatto e quello che se ne può fare [...] Abbiamo fatto un bambino e vogliamo farne qualcosa che ci piaccia.

Frankenstein si vuole padre, ma scopre troppo tardi cosa questo vuol dire. Terrorizzato cade in un sonno inquieto: è spaventato da ciò che ha appena fatto e di cui non si rende ancora bene conto. 
a quelli che non sanno quel che fanno non sempre è concesso il perdono, Shelley, 1978, p.61
La creatura non è particolarmente piacevole, frutto com'è di un lavoro di taglio e cuci, eppure questa creatura non è il mostro sanguinario che diventerà. Anche la stessa Mary Shelley descrive questa creatura profondamente "buona", piena di sentimenti di compassione, nata con la sola richiesta di essere amata. È maldestra, impacciata, ignorante dei costumi degli uomini, ma niente in lei è espressione di cattiveria o aggressività. Solo quando abbandonata dal suo creatore la creatura, nel tentativo di fare la sua educazione, si avvicina al mondo che però non la riconosce come uno di loro, allora scopre l'infelicità, la solitudine e la disperazione. 
Il padre, Victor, ha mancato completamente la sua funzione, quella di mediatore: introdurre la sua creatura nel mondo, educarla e aiutare gli uomini ad abituarsi a lei. Inutilmente Victor urlerà di non sapere quello che ha fatto.
Fabbricare un uomo non è una cosa che si può fare così, alla sprovvista e senza pensarci veramente, senza misurarne le conseguenze, né interrogarsi su ciò che questo implica per il futuro. Meirieu, 2007, p.64
Fabbricare un uomo e poi abbandonarlo significa assumersi, in effetti, il rischio terribile di farne un "mostro".
Frankenstein non è un educatore, questo è il motivo per il quale la sua azione si conclude nel risultato, nel fine stabilito a priori: fabbricare un uomo.
Il corpo della sua creatura è un insieme di organi, la combinazione efficace tra conoscenze e abilità tecniche, senza alcuna competenza. Non ha consapevolezza, il dottor Frankenstein, di quanto sta compiendo, né se ne assume la responsabilità. Alla sua creatura non rimane che un vano tentativo di inserimento sociale, il cui fallimento accenderà la rabbia del rifiuto.

Il mito di Frankenstein mette in evidenza a livello educativo l'impossibilità di fabbricare una creatura per il nostro gusto del potere, l'illusione di trasmettere senza accompagnare, la necessità di un atto volontario ad apprendere e a divenire parte di un nucleo sociale, l'influenza che l'educatore ha sul discente.
Lo scopo dell'impresa educativa è che l'educando venga accompagnato nel mondo, che sia introdotto nella comprensione di quanti lo hanno preceduto, che l'educazione lo conduca a "farsi opera di se stesso"...
La scuola deve essere conservatrice: essa conserva il legame tra le generazioni, lo ricostruisce quando è minacciato, permette a ogni generazione di non dover ripartire da zero ed esorcizza questa paura dell'abbandono [...] Meirieu, 2007, p.131
Così, gli allievi non vanno a scuola per imparare quello che pensa l'insegnante, ma proprio per sapere chi sono, chi li ha creati, qual è la loro eredità immateriale, cosa possono cambiare. Vanno a scuola per scoprirsi. O meglio dovrebbero andare a scuola per questo.
Apprendere richiede uno sforzo, richiede una decisione personale al proprio cambiamento:
si apprende per distaccarsi da quello che si è, per liberarsi da quello che si dice e si sa di noi, per scostarsi da quello che ci si aspetta e da quello che è stato previsto. Meirieu, 2007, p. 81
Un lungo e alle volte faticoso lavoro quello dell'apprendere, che porta la persona a conoscersi, a comprendere i suoi legami con il mondo e la società ai quali appartiene, che gli consente di fare scelte frutto di un saggio equilibrio tra cuore e mente.. Tutto ciò è possibile quando in questo percorso sono sorretti da insegnati ed educatori che possono dedicarsi realmente e con passione al proprio lavoro, frutto di una scelta consapevole dei compiti e dei doveri che questo lavoro richiede. Ma quando il lavoro è scelto per fame di "ruolo" quale educazione e insegnamento ne conseguirà?


I candidati si vogliono insegnanti, ma sanno cosa questo significherà?





sabato 20 aprile 2019

EPISTOLARIO DI ABELARDO ED ELOISA

Una cosa che mi ha sempre colpita, in parte negativamente, è stata la ciclicità dei rituali religiosi.
Tra qualche giorno si avvicina Pasqua che, assieme al Natale, è le festività più celebrata e "sentita" della religione cattolica. Eppure, mi sono spesso chiesta: "Perché ogni anno si ripetono le stesse cose? Perché non concentrarsi mai su episodi diversi della vita di Cristo? Oppure, se proprio devono essere gli stessi, perché affrontarli con gli stessi dati, le stesse frasi, le stesse pratiche?" Qualche risposta l'ho trovata, guarda caso in un libro di antropologia e qui, descrivendo i rituali, l'autore spiega i perché di molte loro caratteristiche quali la ripetitività, l'autorità intrinseca, la sua dimensione coreografica:
Il rituale comporta spesso un elemento di spettacolo o di esibizione. [...] un modo che lo distingue dal corso ordinario della vita.
[...] il rituale trasmette essenzialmente l'autorità, è uno strumento della tradizione [...] Quando si partecipa ad un rituale si avverte spesso il peso della tradizione [...] il sentirsi parte di qualcosa di più grande. [...] Il rituale a senso unico esercita tale autorità [...] disciplina i partecipanti - proprio perché usa un copione predefinito: preghiere formali, momenti lliturgici, inni nazionali eccetera. [...] In un rituale non è previsto che scogitiate nulla di nuovo mentre procedete nella sua celebrazione. M.Engelke Pensare come un antropologo,pp.170-71
Ancor prima di trovare questa appena citata lettura ho comunque tentato di darmi una risposta alla domanda "Perché ripetiamo sempre le stesse celebrazioni? Perché il rituale è sempre lo stesso tanto nelle forme quanto nei contenuti?" E come succede a chi si chiede e domanda, mi sono risposta da sola: "Forse la ciclicità permette all'uomo di entrare meglio nelle anse dell'evento celebrato, di ricercarne ogni volta una comprensione più profonda e ampia?!" Nonostante la mia idea non abbia trovato conforto in alcun testo nonché in alcuna celebrazione, continuo a credere nella sua possibilità, soprattutto alla luce dello svuotamento attuale di qualsiasi senso e significato dei simboli, qualunque essi siano.

Ecco perché oggi ho deciso di parlare di Abelardo ed Eloisa
Credo che molti si chiederanno perché. Il perché lo scoprirete leggendo. 


La storia di Abelardo ed Eloisa sicuramente è conosciuta da molti, se non moltissimi, studiosi e non. Il loro amore proibito, testimoniato dalle lettere che si sono scritti, costitusce uno degli episodi della tradizione medievale che nei secoli ha esercitato un gran fascino. Non scriverò di questo amore, né delle lettere che si sono scambiati - non sarebbe di mia competenza. Tuttavia, ritengo sia il caso farne un breve accenno. 

Abelardo, brillante magister della scuola cattedrale parigina, nel fiore degli anni conosce Eloisa, giovane nipote di un canonico della cattedrale. Ospitato dalla casa di quest'ultimo e divenuto precettore della fanciulla, i due si innamorano e lei poco dopo rimane incinta. Sopraggiunge un matrimonio riparatore, ma la famiglia di lei ha comunque sete di vendetta e una notte dei sicari sorprendono Abelardo nel sonno e lo evirano. A causa della disperazione e della vergogna che lo prendono decide di farsi monaco a Saint-Denis, mentre Eloisa prende il velo nel monastero di Argenteuil. Tuttavia, il filo rosso che lega le vite dei due amanti non si spezza e a distanza di pochi anni Abelardo, ormai abate dell'abazia bretone di Saint-Gildas, dona l'oratorio della Trinità presso Troyes alle monache cacciate da Argentuil, delle quali Eloisa ne fa parte. Riprendono i fitti rapporti che continuano anche dopo la fuga di Abelardo da Saint-Gildas alla volta di Parigi. Egli per Eloisa e le sue consorelle compone sermoni, testi liturgici ed esegetici. Proprio in questi anni parigini vede forse la luce l'insieme delle otto lettere indicate come Epistolario di Abelardo ed Eloisa.

Quetso dialogo epistolare narra la doppia vicenda spirituale dei protagonisti che li conduce al superamento di una condizione interiore di sofferenza. Per Eloisa questa vicenda si realizza in una trasformazione del suo amore tutto terreno e carnale in un innallzamento all'amore spirituale, dove trova una soluzione l'impossibilità di pentirsi della perduta felicità amorosa, da lei più volte lamentata. Il loro amore trova un coronamento nella corrispondenza epistolaria e nella consolatio dapprima personale e man mano più di carattere dottrinario.

Ma veniamo al punto che ha attirato la mia attenzione, sto parlano della VII lettera che Abelardo indirizza alla amata, Risposta alla stessa sull'autorità e la dignità dell'ordine delle monache
In questa lettera Abelardo traccia un excursus sull'origine del monachesimo femminile e illustra la sua teoria sulla distinzione tra uomo e donna nel cammino di fede. 
Sorella carissima, alla tua carità, che per te e per le tue consorelle chiede di conoscere l'origine della tua professione religiosa, donde cioé sia sorta la vita religiosa delle monache, io risponderò in breve e sinteticamente, se ci riuscirò.
Questa lettera è in risposta alle domande che Eloisa gli pone a conclusione della VI lettera. 
Leggiamo (Ev.Luc., 8,2), infatti, che, insieme agli apostoli e agli altri discepoli, e con la madre di lui, c'era una comunità di sante donne, donne cioé che, rinunciando al secolo e spogliandosi di ogni proprietà per possedere solo Cristo [...] con devozione compirono quel comandamento dal quale iniziano tutti quelli che si convertono [...] "Chiunque non rinunzierà a tutto ciò che possiede non potrà essere mio discepolo".
Abelardo, servendosi di esempi di donne tratte dal Nuovo e Antico Testamento lascia emergere la forza, il coraggio e la devozione delle donne che supera di gran lungo quella degli uomini, nello specifico degli apostoli. 
La storia sacra racconta accuratamente con quanta devozione queste donne santissime e veramente monache seguirono Cristo, e quanta riconoscenza e quanto onore tributarono alla loro devozione tanto lo stesso Cristo quanto poi gli apostoli.
E difatti, Abelardo quasi elenca la schiera delle donne che seguirono Cristo:

L'episodio in cui Simone il Fariseo invita Cristo nella sua casa e una donna peccatrice, durante il banchetto, si accosta al Signore e piangendo gli bagna i piedi di lacrime, li asciuga con i suoi capelli e li unge di un unguento profumato. Ev. Luc., 7, 36
[...]venne da lui riproverato perché mormorava e che l'omaggio della peccatrice fu di gran lunga preferito alla sua ospitalità. 
Richiama l'episodio con Lazzaro che, resuscitato, era a tavola con gli altri e sua sorella Marta da sola si preoccupa di servire Cristo nei pasti mentre Maria, impegnata a versare sui piedi del Signore un unguento prezioso e profumato, riempì la casa di profumo. Ev. Marc., 14, 4
[...] e che dalla cifra che esso valeva, che sembrava così inutilmente sprecata, Giuda fu spinto alla cupidigia, mentre i discepoli se ne indegnarono. Mentre, dunque, Marta si preoccupa del cibo, Maria provvede all'unguento e colui che quella rinfocilla interiormente, questa, stanco, cura esteriormente. 
Il Vangelo non ricorda abbian servito il Signore se non donne, che utilizzarono anche i propri beni per nutrirlo ogni giorno, e che a lui procuravano in particolare il necessario per vivere. Egli si dimostrava con i discepoli servo umilissimo, servendoli a tavola e lavando i loro piedi; non ci risulta invece che da nessun discepolo o da nessun uomo abbia ricevuto simile servizio, ma che solo le donne, come abbiamo detto gli hanno reso queste e altre manifestazioni di umana gentilezza. 
E vengo ora alla parte per me più interessante:
[...] Ecco, egli accetta da una donna anche il sacramento della regalità, mentre aveva rifiutato di accettare il regno a lui offerto dagli uomini e aveva fuggito coloro che volevano rapirlo per farlo re. La donna compì la consacrazione del re celeste non del re terreno, di colui, io dico, che poi disse di sé "Il mio regno non è di questo mondo". I vescovi quando, ornati di vesti splendide e dorate, consacrano i sacerdoti. E spesso benedicono coloro che sono maledetti dal Signore. L'umile donna, senza mutar d'abito, senza ornamenti, tra l'indignazione degli stessi apostoli, somministrò questi sacramenti a Cristo non come officio derivato dal rango, ma per merito della devozione.  [...] Quanto i suoi unguenti siano ben accetti al signore, quanto a lui graditi, lo dichiara egli stesso quando chiede all'indignato Giuda che siano a lui riservate e dice: "Lasciatela fare affinché ciò serva nel giorno della mia sepoltura" [...] mentre i discepoli si indignavano di tanta presuzione da parte della donna [...] mormoravano contro di lei [...] egli, con la sua mitissima risposta, esaltò a tal punto il beneficio ricevuto da ordinare di farne menzione nel Vangelo, e da predire memoria in lode della donna [...] Anche la morte stessa del Signore mostra apertamente quanta fu la loro devozione verso di lui. [...]Infatti mentre il principe degli apostoli lo rinnegava, l'amato del Signore fuggiva, e gli altri apostoli si erano dispersi, esse restarono intrepide, e né paura né disperazione poterono separarle da Cristo sia durante la passione sia durante la morte [...] esse se ne stavano immobili anche presso il suo sepolcro [...]Dapprima esse furono consolate dall'apparizione dell'angelo che annunciava loro che il Signore era risorto, e [...] dopo aver visto l'angelo "uscirono dal sepolcro e corsero ad annunziare ai discepoli la resurrezione del Signore". [...] Da tutte queste affermazioni possiamo dedurre che le sante donne furono destinate ad essere apostole al di sopra degli apostoli, dal momento che, inviate a loro dal Signore e dagli angeli, annunciarono con gioia suprema della resurrezione, che tutti attendevano, affinché gli apostoli apprendessero prima per mezzo loro quello che poi dovevano predicare a tutto il mondo.
Le donne, dunque, hanno dimostrato di agire in concreto nella verità, con i facta hanno manifestato il loro amore, e con spontaneità sono giunte alla profondità delle cose. Il messaggio di Abelardo, in una società dove la donna era vista causa di tutti i mali e ancella del demonio, supera la misoginia diffusa e esalta la forza della donna che parlava poco ma agiva tanto e con sincerità.

Credo che sia chiaro ora il legame della lettera con l'evento pasquale, ma credo lo sia meno con il mio interrogativo sulla ciclicità dei rituali, o meglio sul dar senso alla ciclicità e ripetitività dei rituali.
Se un rituale e i suoi simboli, ormai svuotati di significati e ridotti ad un'occasione per far festa a scuola e a lavoro, per mangiare oltre la sazietà e per regalarsi oggetti senza nessun sentimento, vuole recuperare il suo valore allora dovrebbe allargare il suo orizzonte d'azione. Dovrebbe tracciare nuovi percorsi di lettura, far riemergere i significati più veri e spazzare preconcetti e false credenze... dovrebbe aprire gli occhi della mente, e questo compito spetta agli officianti religiosi e a quanti lavorano nel campo dell'istruzione affinché la ciclicità non significhi banale vacuità.

Ecco dunque spiegato questo lunghissimo post.

Credo fermamente nell'importanza della lettura, nell'acquisire nuovi punti di vista anche su questioni ormai acquisite come ordinarie e scontate, perché se l'uomo è come si dice un animale simbolico, lo è prima di tutto quando cerca di dare un senso a ciò che fa e ciò in cui crede, non quando segue un passato, una tradizione senza saper più né perché né come. E come questo bel testo mostra ci sono davvero tanti punti di vista inusuali e poco raccontati durante le messe o le ore di catechismo che riabilitano figure, come in questo caso quello della donna, da secoli condannata per un morso alla mela!

Buona nuova Paqua! 




Il testo e la relativa traduzione adottata è tratta da Epistolario di Abelardo ed Eloisa a cura di Ileana Pagani, Classici Latini, Autori dalla tarda antichità del Medioevo e dell'Umanesimo,Torino, UTET






venerdì 1 febbraio 2019

PAESAGGI CONTAMINATI


Martin Pollack, PAESAGGI CONTAMINATI. Per una nuova mappa della memoria in Europa. Quando paesaggi idilliaci celano oscuri segreti, Traduzione di Melissa Maggioni, Kelelr editore, Rovereto, 2016
"Paesaggio". Questo termine suscita in noi per lo più sentimenti positivi ed emozioni piacevoli [...] immaginiamo prati e boschi, meandri di fiumi e ruscelli, forre selvagge e dorsali verdi non ancora rovinati senza alcun rispetto o addirittura distrutti irrevocabilmente dall'operato dell'uomo.
Così Martin Pollack, giornalista e scrittore austriaco, apre il suo libro di viaggio ma anche saggio e reportage sull'Europa del Novecento. I paesaggi narrati in queste pagine sono quelli della sua infanzia, dei frutteti, dei campi e dei boschi del Burgernland meridionale, ma anche quelli dei Balcani, della Polonia, dei Paesi Baltici, dell' Ucraina e della Bielorussia dove si sono compiuti alcuni tra i più efferati crimini del Nazismo
Per anni ho associato al paesaggio della mia prima infanzia tutti i ricordi più belli, finché non ho cominciato a confrontarmi con la mia storia familiare: in quel momento mi resi conto che avevo idealizzato le cose per la totale mancanza di conoscenze. (intervista a Panorama)
Il paesaggio da caro, rassicurante e "innocente" assume, nel corso della narrazione, le sue specificità, riacquista la sua dimensione storica e antropica.
 Il paesaggio che noi conosciamo è sempre segnato e modellato dall'uomo. p.10
Infatti, se andiamo alla sua etimologia, che deriva dal francese paysage  a sua volta legato a paese, esso ha chiaramente una connotazione di carattere antropico.
Forma e struttura del paesaggio, dunque scaturiscono da un'intensa stratificazione di cause e avvenimenti storici che si sono vicendevolmente intrecciati nei secoli, imprimendo ad un determinato territorio una particolare specificità. P. Rossi, Compendio di Geogrefia generale, 2010, p.164
Il termine paesaggio è stato centrale negli studi geografici del Diciannovesimo secolo e soprattutto negli studi del nazionalsocialismo. Geografi e storici, riporta l'autore, si sono impegnati a sottolineare nei loro scritti la differenza motivata dalla razza tra l'uomo tedesco e i vicini slavi: i primi plasmerebbero il paesaggio con spirito creatore, mentre i secondi, pigri e deboli, dimorano inoperosi in zone selvagge, sterili e paludose. Come conseguenza delle teorie sulla razza, che molto risentirono del pensiero dell'evoluzionismo sociale, il popolo più "avanzato e civilizzato" deve svolgere una missione di educazione. 
Agli occhi dei pianificatori nazisti del paesaggio, che con la teoria aprivano la strada alle conquiste, i paesaggi dell'Europa dell'Est erano diventati incolti e devastati da uno sfruttamento incontrollato a causa delle mancanze culturali e civili delle popolazioni che ci vivevano [...] p. 18
La missione del nazionalsocialismo si concretizzò dunque in espulsioni e genocidi nell' Europa.

L'autore attraversa quelle che sono state definite le bloodlands - le terre insanguinate - a causa delle politiche di Hitler e Stalin.
Arriva a Kurapaty, in Bielorussa, a 30 chilometri da Minsk, dove, tra il 1937 e il 1941, si ritiene siano stati fucilati e sotterrati dagli uomini del Commissariato del popolo sovietico 250mila tra intellettuali e patrioti bielorussi. Si spinge a Bikernieki, ad est di Riga, in Lettonia, dove, tra il 1941 e il 1944, squadracce di Ss lettoni massacrarono tra 35 mila e 46mila ebrei, prigionieri di guerra e partigiani. Ritorna indietro, nel Kocevski rog, in Slovenia, dove “i colpevoli hanno reso complice il paesaggio: (dove) le foibe profonde e lontane hanno permesso loro di far sparire i morti con tanta facilità che si è quasi tentati di parlare di una complicità del paesaggio”. (I “PAESAGGI CONTAMINATI” DAI BLACK-OUT DELLA STORIA IL TRENTINO, 23 gennaio 2016, Paolo Piffer)


Questo viaggio-reportage, narrato in prima persona, dove i ricordi dell'infanzia dell'autore si mescolano con le scoperte dei massacri lì compiuti e sepolti dal manto dell'oblio e dell'omertà, restituisce - come dice lo stesso sottotitolo - una nuova mappa della memoria dell'Europa.
Pollack vuole ricordare al lettore come boschi, orti e frutteti siano cresciuti, nell'ultimo mezzo secolo, sopra innumeri fosse comuni di senza nome. 
Quanti dei nostri segreti dimenticati sono marciti per sempre sottoterra!
Non solo la terra, ma anche i fiumi e i laghi sono diventati luoghi dell'oblio della violenza.
[...] il bacino del Danubio rassomigli a una fossa comune. [...] è impossibile contare quanti scheletri serbi, ungheresi, ebrei, tedeschi riposino nelle profondità del Danubio. p.70
Il libro Paesaggi contaminati è un'occasione di riflessione e di conoscenza di un tema importante della nostra storia più recente, non a caso rientra nella collana Razione K che raccoglie i reportage della Keller dedicati a temi importanti dell'attualità.
"Piccoli oggetti di sopravvivenza così come lo sono le Razioni K per i militari". 

lunedì 7 gennaio 2019

L'UTILITÀ DELL'INUTILE

Ed eccomi ad uno dei libri che più mi ha ispirato nei mesi scorsi. Uno di quei libri che arrivano per confortarti e per dirti "Ehi, il mondo non va solo come dicono o vorrebbero che andasse!"


Il libro L'utilità dell'inutile è arrivato in libreria verso luglio. Restava sul bancone un po' in disparte tra la marea di gadget e altre inutilità della vendita delle librerie di catena. L'ho preso un po' per curiosità - il titolo certo ha giocato in questa direzione - e un po' perché ero stufa di allestire scaffali, gondole, vetrine e bancone con libri di cui sapevo poco quanto nulla o quel poco che sapevo era sufficiente per spedirli dritti dritti nel bidone. Così mi sono detta "Proviamo a dare un'occhiata a questa nuova proposta." A dimostrazione di quanto mi stesse piacendo, mi sono ritrovata quello stesso giorno a parlarne con un cliente uruguaiano, tra un quasi spagnolo e un mezzo italiano, in una giornata di ressa alla cassa.

L'autore del libro è Nuccio Ordine, professore di letteratura italiana all'università della Calabria. Il suo saggio-manifesto, edito prima in Francia da Les Belles Lettres e poi da Bompiani, ha venduto decine di migliaia di copie solo in Italia e ha in cantiere traduzioni in tutto il mondo, perfino in Corea e Cina. 

L'ossimoro del titolo L'utilità dell'inutile coglie perfettamente le contraddizioni della nostra società tra l'utilità, intesa come profitto, spesso impersonale e l'utilità disinteressata delle "cose inutili" ma che hanno un ruolo fondamentale nella coltivazione dello spitito e nella cescita civile e culturale dell'umanità.
[...] utile è tutto ciò che ci aiuta a diventare migliori.
In una logica dominata dal profitto, dai guadagni immediati, dall'idea della produzione in qualsiasi campo e disciplina - non fanno eccezione i musei, le università, i centri di ricerca, e neanche le librerie, purtroppo - dimentichiamo e veniamo educati progressivamente ad ignorare qualsiasi forma di solidarietà, di umanità.
Così, con crudeltà, molte aziende (che hanno goduto, per decenni, della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite) licenziano gli operai, mentre i governi sopprimono il lavoro, l'istruzione, l'assistenza sociale e la sanità pubblica.
In questo contesto brutale e insensato l'aiuto che i saperi, per così dire "inutili", possono dare è di contrapporsi all'utilità dominante dell'esclusivo interesse economico.
Nell'universo dell'utilitarismo, infatti, un martello vale di più di una sinfonia, un coltello più di una poesia, una chiave inglese più di un quadro [...]
E io aggiungerei che l'ignoranza, la volgarità e la ferinità dei comportamenti vengono seguiti, osannati, pubblicizzati più del dovuto buon senso. 
In un contesto sociale, dove si bada più all'aspetto "esteriore" che alla "dignità interiore" non c'è da meravigliarsi se "la più grossolana ignoranza ha assunto l'apparenza d'istruzione".
Il saggio di Nuccio Ordine è un vero e proprio manifesto: non è un testo organico, bensì frammentario, che raccoglie citazioni e pensieri che l'autore ha "collezionato" durante i suoi studi e i suoi anni di docenza univeristaria. 
È suddiviso in tre parti: l'utile inutilità della letteratura; gli effetti disastrosi della logica del profitto nel campo dell'insegnamento e delle attività culturali in generale; la carica illusoria del possedere e i suoi effetti devastanti sulla dignitas, sull'amore e sulla verità. Non mi soffermerò a trattare ciascuna delle succitate parti, né una in particolare. Questa volta ho deciso di riportare alcuni dei passaggi che per me sono stati più significativi, perché credo che mai come in questo caso sia meglio passare la parola all'autore.
Gli "umomini liberi" non hanno problemi di tempo e non devono dar conto a nessuno, mentre gli "schiavi" sono condizionati dalla clessidra e da un padrone che decide. p.67
Quasi tutti i paesi europei sembrano essere orientati verso un abbassamento dei livelli di difficoltà per consentire agli studenti-clienti [il corsivo è una mia aggiunta] di superare gli esami con maggiore facilità nel tentativo (illusorio) di risolvere il problema dei fuori corso. Per far laureare gli studenti nei tempi stabiliti dalla legge e per rendere più gradevole l'apprendimento non si chiedono più sacrifici in più ma, al contrario, si cerca di allettarli con la perversa riduzione dei programmi e con la trasformazione delle lezioni in un gioco interattivo superficiale, basato sulle proiezioni di slides e somministrazioni di questionari a risposta multipla. p. 112
Le università non possono essere gestite come aziende. Contrariamente a ciò che pretendono di insegnarci le leggi dominanti del mercato e del commercio, l'essenza della cultura si basa sulla gratuità [...] Marc Fumaroli a Napoli, in un' appassionata conferenza tenuta nella sede dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici - ci ricorda che lo studio è innanzitutto acquisizione di conoscenze che, libere da ogni vincolo utilitaristico, ci fanno crescere e ci rendono più autonomi. pp. 116-17
[...] l'esperienza dell'apparentemente inutile e l'acquisizione di un bene non immediatamente quantificabile si rivelano investimenti i cui profitti vedranno la luce nella longue dureé . p.117
In una società utilitaristica, gli uomini finiscono per amare "le bellezze facili" che non domandano sforzi, né eccessive perdite di tempo ( "Amano i libri facilmente procurabili, che si leggono presto, chenon richiedono ricerche sapienti per essere compresi") p. 124
Ma la gloriosa logica del superfluo si è avviata al tramonto, quando il capitalismo ha "richiesto la rinuncia dell'uomo allo spreco delle feste" e a "altri dispendi simili" per evitare che si  volatilizzassero energie utili invece di "sviluppare la produzione" e l'accumulazione.  Nel perdere questo sovrappiù, l'umanità ha perduto i valori di una civiltà in cui il gratuito e il dono contribuivano a dare un significato più umano alla vita. p. 131 
Bisogna saper guardare alla "bellezza intellettuale" che basta a se stessa. Per lei sola, "e forse più che per il bene futuro dell'umanità", "l'uomo di scienza [e aggiungerei anche l'uomo di lettere] si assoggetta a dure e lunghe fatiche". Senza questo laborioso e disinteressato sforzo, sarebbe veramente difficile pensare di diventare migliori. p.160
La conoscenza è una richezza che si può trasmettere senza impoverirsi. p. 161 
Potrei continuare a trascrivere molti altri passi, ma oltre a violare i diritti d'autore contribuirei a svelare un testo che andrebbe letto per intero e non solo per sommi capi. 
Ho proposto questo libro a diverse persone a me care e anche a colleghi meno cari perché, come ha dichiarato Nuccio Ordine in una sua intervista al giornale La Repubblica, volevo mostrare che il gratuito e il disinteressato sono cose essenziali all'umanità. Per questo stesso motivo lo propongo qui, sul mio blog, e proprio all'inizo di un nuovo anno dove possa trovar posto un bel po' di inutilità apparente!

Buona lettura!



venerdì 4 gennaio 2019

VA' DOVE TI PORTA IL CUORE

Il cuore fa subito pensare a qualcosa di ingenuo, dozzinale. [...] Nelle rare volte in cui viene citato è soltanto per riferirsi al suo cattivo funzionamento [...] ma di lui, del suo essere il centro dell'animo umano, non viene più fatto cenno.
Chi bada al cuore - si pensa allora - è vicino al mondo animale, all'incontrollato, chi bada alla ragione è vicino alle riflessioni più alte. E se le cose invece non fossero così, se fosse vero proprio il contrario? Se fosse questo eccesso di ragione a denutrire la vita?

Chi non conosce, anche solo per nomea, il romanzo di Susanna Tamaro Va' dove ti porta il cuore ?! Credo in molti lo conoscano, e sarebbe difficile il contrario per un romanzo diventato giustamente best seller con oltre 15 milioni di copie vendute in tutto il mondo e, in occasione delle celebrazioni dell’Unità d’Italia del Salone di Torino, inserito tra i «Grandi Libri». 

Fino a quasi qualche mese fa conoscevo solo il titolo del romanzo e, come spesso accade a chi ha ricevuto un'educazione razionale, ritenevo che fosse un romanzo sentimentale, potenzialmente intriso di tanti luoghi comuni. Ma come spesso capita nella vita, mi sono dovuta ricredere già dalle prime pagine.

Il romanzo è una lunga lettera-diario che Olga, una donna di ottant'anni, sul finire dei suoi anni, scrive a sua nipote che ha lasciato l'Italia da due mesi. Una lettera che, giorno dopo giorno, nutrita di ricordi, di riflessioni e racconti della propria vita, tenta di ricucire un rapporto compromesso da fraintendimenti e verità celate tra lei e la nipote. 

Olga nasce a Trieste, in una ricca famiglia borghese di origine ebraica. In tutta la sua infanzia non ha visto mai la madre compiere un gesto affettuoso. Una donna insoddisfatta e rancorosa, preoccupata dell'etichetta si agitava in continuazione solo per cause esterne.
Il suo matrimonio non era stato d'amore. Nessuno l'aveva costretta, si era costretta da sola perché, più di ogni altra cosa, lei, ricca ma ebrea e per di più convertita, ambiva a possedere un titolo nobiliare. Mio padre, più anziano di lei, barone e melomane, si era invaghito delle sue doti di cantante. Dopo aver procreato l'erede che il buon nome richiedeva, hanno vissuto immersi in dispetti e ripicche fino alla fine dei loro giorni.
I figli erano più un dovere mondano che un desiderio d'amore e così Olga trascorre la sua vita in una solitudine ricercata e necessaria. 
[...]da questo disagio presto è nata dentro di me una grande solitudine, una solitudine che con gli anni è diventata enorme [...]  La solitudine nasceva anche dalle domande, da domande che mi ponevo e alle quali non sapevo rispondere.
Olga cresce nelle mura di una casa fredda d'amore e attenta all'etichetta. A ventott'anni incontra Augusto, un uomo gentile che le dà attenzioni e così, la giovane ormai spacciata per futura zitella, si sposa e va a vivere all'Aquila. Il matrimonio, come un'eredità di discendenza materna, non è felice. Augusto non le fa mancare niente, ma la loro relazione già tiepida va via via raffreddandosi. Una vita che si svolge per quattro anni monotona e sterile. 
Dopo un po' di tempo arriva una figlia, Ilaria, il frutto voluto di un amore extra-coniugale. Crescendo Ilaria si dimostra debole, piena di slogan sessantottini e arrabbiata. Una rabbia che la porta via di casa verso Padova, dove frequenta, pervasa di ideologie, l'università di Filosofia. 
Ascoltando i suoi rari resoconti al telefono, mi rendevo conto che non riuscivo più a seguirla, era sempre infervorata per qualcosa e questo qualcosa cambiava di continuo.
Il loro rapporto conflittuale viene peggiorato dalle droghe e gli psicofarmaci che Ilaria assume su suggerimento di uno psicologo improvvisato. Olga assiste all'involuzione della figlia con pigrizia, vigliaccheria e rimane passiva.
L'amore non si addice ai pigri, per esistere nella sua pienezza alle volte richiede gesti precisi e forti.
E invece Olga si nasconde dietro la maschera della libertà, del "fai come vuoi tu", "decidi tu", che alla fine altro non è se non un tentativo di nascondere la propria noncuranza, il proprio desiderio di non venire coinvolti. 
La mia vita fino a quel momento mi era sembrata molto banale [...] Anche quando sono diventata adulta, moglie e madre, vedova e nonna, non mi sono mai scostata da questa apparente normalità.  L'unico evento straordinario, se così si può dire, è stata la tragica scomparsa di tua madre.
Di una decisione che si prende o non si prende e della sua importanza ci si rende conto solo quando l'attimo è trascorso. La vita, comprende Olga, è fatta di bivi, di incontri, di altre vie il cui conoscerle o ignorarle, viverle o lasciarle perdere dipende da noi.
[...] tra proseguire dritto o deviare spesso si gioca la tua esistenza, quella di chi ti sta vicino.
Dopo la morte tragica della figlia, Olga ormai sessantenne inizia una nuova maternità con la nipote che, per regole strane del destino, le consente di far i conti con se stessa e di rimettere i pezzi a posto nel suo cuore. 
La comprensione esige silenzio. Da giovane non lo sapevo, lo so adesso che mi aggiro per la casa muta e solitaria come un pesce nella sua boccia di cristallo. È come pulire un pavimento sporco con una scopa o con uno straccio bagnato: se usi la scopa gran parte della polvere ricade sugli oggetti accanto; se invece usi lo straccio inumidito resta splendente e liscio. Il silenzio è come uno straccio inumidito, allontana per sempre l'opacità della polvere.

Nel prendere carta e penna, Olga, fa un gesto d'amore: apre il suo cuore e gli dà forza, quella forza che le è mancata nella relazione con Ilaria. Un gesto per molti versi anche sovversivo, rispetto alla mentalità borghese da cui proveniva, per la quale è sempre meglio tener nascosto ciò che vive nell'animo. Ma proprio la morte della figlia e il rapporto con la nipote la portano a dare voce ai suoi sentimenti, ai suoi ricordi, alle sue mancanze come madre. Olga racconta in modo pacificato senza rancori né rimorsi il percorso che l'ha portata ad essere ciò che è. Nel silenzio del cuore, che respira e si mette in contatto con l'essenza della persona, Olga ha fatto tacere i pensieri caotici e rumorosi della mente e ha trovato un nuovo equilibrio. Ha compreso che l'unico viaggio che vale la pena di fare è al centro di se stessi. 

Riabituarsi ad ascoltare la voce originaria non è facile, non lo è stato per la protagonista di un romanzo e non lo è per noi persone in carne ed ossa alle prese con le sfide della vita, più o meno importanti. Però sembra che la strada sia una: ascolatre il cuore. Le sue scelte non sono razionali, non sembrano ponderate e lungimiranti, eppure sono quelle che ci portano in contatto con la nostra vera essenza.
E quando poi davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quali prendere, non imboccarne una a caso [...] Stai ferma, in silenzio, e ascolta il tuo cuore. Quando poi ti parla, alzati e va' dove lui ti porta.

Il romanzo che nella finzione narrativa vuole essere anche un dono per la nipote, nella realtà della lettura è un dono anche per noi. E quale miglior dono per un anno appena iniziato dar voce e prestare orecchio al nostro cuore?

Buona lettura e buon anno nuovo.